Con sentenza n. 15676/2022, la terza sezione della Corte di cassazione penale si è pronunciata (ancora una volta) sull’annosa questione delle concessioni demaniali ad uso turistico-ricreativo (su cui, per tutti, la recente collettanea Coste e diritti, a cura di A. Cossiri, nonché, su questo Blog, E. Verdolini), abbracciando il consolidato orientamento secondo cui ai fini dell’integrazione del reato previsto dall’art. 1161 cod. nav. – rubricato “Abusiva occupazione di spazio demaniale e inosservanza di limiti alla proprietà privata”) – la proroga ex lege della durata delle c.d. “concessioni balneari” presuppone la titolarità di una concessione demaniale valida ed efficace (v., per tutte, Cass. Pen. n. 32966/2013).
Rinviando al testo della sentenza per i dovuti approfondimenti in fatto, ciò che qui interessa è mettere in evidenza il percorso logico-giuridico (a tratti fallace) seguito dai giudici per giungere non solo all’enunciazione del principio di cui sopra, ma all’ulteriore (e quanto mai sorprendente) statuizione secondo cui la proroga legale dei termini di durata delle concessioni (nel caso di specie si trattava di quella ex art. 1, c. 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito in l. 26 febbraio 2010, n. 25) opererebbe solo per gli atti ampliativi successivi all’entrata in vigore della proroga stessa e non, quindi, per i titoli concessori precedenti (e in essere al momento dell’entrata in vigore del d.l.).
Da tale enunciazione i giudici hanno dedotto che la concessione oggetto del procedimento, rilasciata nel 1998 e in scadenza il 31 dicembre 2009, non poteva considerarsi “nuova” e, quindi, validamente prorogata. Se così fosse stato, infatti, la configurabilità del reato di all’art. 1161 cod. nav. sarebbe stata esclusa.
Orbene, a prescindere dal fatto che sembra difficile sostenere, quantomeno da un punto di vista logico e financo semantico, che l’atto di prorogare abbia ad oggetto qualcosa che ancora non esiste, le dichiarazioni dei giudici consentono di svolgere alcune riflessioni critiche.
In primo luogo, è opportuno ricordare che il menzionato d.l. recitava espressamente che «il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2012 è prorogato fino a tale data» (enfasi aggiunta); termine poi, com’è noto, ulteriormente esteso al 31 dicembre 2015.
Per giustificare un evidente discostamento dalla lettera della disposizione (la concessione de qua scadeva il 31 dicembre 2009 ed era quindi chiaramente «in essere» all’entrata in vigore del d.l.), i giudici hanno richiamato una «consolidata» giurisprudenza che, peraltro, sembra difficilmente “sovrapponibile” al caso di specie. La richiamata sentenza n. 29763/2014, infatti, aveva ad oggetto una concessione scaduta nel 2001: era quindi chiaro che non potesse essere prorogata dal d.l. n. 194/2009, essendo già spirata (come si è detto, la proroga presuppone l’esistenza di una concessione demaniale valida ed efficace). Nella sentenza n. 21281/2018, parimenti richiamata dai giudici, la Corte di cassazione sosteneva che le disposizioni ex d.l. n. 194/2009 si riferissero esclusivamente alle concessioni «nuove», sì, ma quelle evidentemente sorte dopo «la l. n. 88/2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. n. 400/1993 [abrogata dalla Legge comunitaria del 2010 al fine di archiviare la procedura di infrazione aperta nel 2008 a carico dell’Italia]», che aveva interessato il titolo oggetto del procedimento (corsivo aggiunto). Il ragionamento, per quanto tortuoso, è comunque comprensibile: se una concessione era già stata prorogata in virtù di una legge abrogata per conformarsi al diritto dell’Unione (quella del 1993, com’era nel caso di specie), sarebbe controintuivo ritenerla prorogata in virtù di un’altra e diversa legge di proroga.
Il caso che ci occupa, abbracciando questo orientamento, ha peraltro “aggiunto” l’ulteriore punto di cui sopra: per poter godere della proroga di cui al d.l. 194/2009, le concessioni dovevano essere state assegnate dopo l’entrata in vigore del d.l. stesso.
Non solo, come si anticipava, tale interpretazione è del tutto incoerente rispetto al tenore letterale del d.l. del 2009, ma è altresì fallace da un punto di vista meramente logico-semantico: la proroga, per sua stessa natura, presuppone il prolungamento nel tempo di qualcosa che già esiste.
Ad ogni modo, la Corte di cassazione, sulla base di tali premesse, ha ritenuto non prorogato il titolo concessorio del ricorrente e, per le stesse ragioni, non ha nemmeno qualificato le “sentenze gemelle” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato come “fatto sopravvenuto” idoneo a far venir meno le condizioni di applicabilità del sequestro precedentemente disposto sullo stabilimento (ex art. 321, c. 3, c.p.p.): le sentenze del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 avrebbero effetto, infatti, solo sulle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative rientranti nell’ambito applicativo della normativa nazionale di proroga; normativa che, per i motivi sopra esplicitati, non troverebbe applicazione rispetto alla concessione del ricorrente.
Per tali ragioni, il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale è risultato integrato. Al contrario, i giudici hanno chiarito che la configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav. sarebbe stata esclusa «se la proroga fosse stata ritenuta applicabile alla fattispecie concreta».
Tale obiter dictum è, a ben vedere, piuttosto problematico. Non è infatti chiaro se i giudici l’abbiano affermato perché l’eventuale disapplicazione della normativa interna contrastante con il diritto “comunitario” non avrebbe potuto avere conseguenze in punto di responsabilità penale (com’è noto, il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem – v. Cass. Pen. sez. un. nn. 38691/2009 e 22225/2012) o perché, semplicemente, la proroga avrebbe determinato la validità della concessione. I giudici non hanno approfondito la questione. Si noti peraltro che, sul punto, la Cassazione penale – nonostante le due sezioni unite testé menzionate – ha più volte statuito che le norme che introducono proroghe automatiche di concessioni demaniali, data la loro contrarietà con il diritto dell’Unione europea, non escludono l’abusiva occupazione di spazio demaniale (per tutte, Cass. Pen. n. 7267/2014).
Com’è evidente, il quadro giuridico (rectius, giurisprudenziale) è tutt’altro che chiaro e una precisazione da parte dei giudici sulla questione sarebbe stata preferibile. La sentenza, all’opposto, sia nelle sue enunciazioni di principio, sia nei suoi “silenzi”, contribuisce a creare ancora più incertezza in un settore, quello delle concessioni demaniali ad uso turistico-ricreativo, che, anche a fronte della pendenza di una procedura di infrazione (come si accennava, la seconda avviata nei confronti dell’Italia), richiederebbe un intervento chiarificatore urgente, non essendo la «mini-proroga» (come definita in dottrina) disposta sino al 31 dicembre 2023 dal Consiglio di Stato a tal fine sufficiente.
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