Vi è senza dubbio un tratto riconoscibile nell’ultimo studio monografico di Federico Savastano. Un’impronta tematica, metodologica e sostanziale che, attraverso un’analisi asciutta e argomentazioni serrate, trasmette la sensazione di un testo aperto: un momento di un più ampio percorso di ricerca che non solo ritrova le sue radici nelle sagge indicazioni di Beniamino Caravita ma che ha l’ambizione di stimolare un approccio allo studio dell’ordinamento europeo che non perda di vista la matrice costituzionale dello stesso, che ne esalti la logica e quindi ne ricerchi la dinamica fondamentale.
Il tema. Il “tono costituzionale” del modello di integrazione europea emerge analizzando la prospettiva dell’allargamento. Quanto disposto dall’art. 49 TUE, in termini di condizioni e procedura, è qualcosa di più di una mera formula di adesione ad uno spazio economico e di benessere. Scrive Savastano, «l’allargamento costituisce un momento cruciale del costituzionalismo europeo. Esso ci pone infatti dinanzi ad una modificazione del territorio di un ordinamento giuridico, per quanto sovranazionale […]. Se è vero, infatti, che il territorio dell’Unione è solo la somma dei territori degli Stati membri, è altresì innegabile come esso delimiti i confini dello spazio comune europeo, dove vigono le stesse norme, dove gli Stati condividono gli stessi valori e si ispirano agli stessi principi. Dai trattati emerge infatti una concezione smendiana del territorio, individuato come luogo di condivisione dei valori […]» (pag. 179). In qualche modo, l’allargamento impone un’adesione dello Stato-ordinamento terzo ad una formula valoriale che si veste di cogenza ed effettività giuridica nei Trattati. Ma questa prospettiva non basta. I valori in parola «provengono dalle Costituzioni degli Stati membri e si riversano nei Trattati per costituire delle tradizioni costituzionali comuni che poi tornano agli Stati membri rafforzate, perché sotto forma di valore condiviso e perché tutelate da un’ulteriore copertura giurisdizionale» (pag. 46). Per cogliere sino in fondo le conseguenze costituzionali dell’integrazione, non si può guardare solo ad una prospettiva di adesione esterna, ma all’inevitabile dinamica di incorporazione interna: il nuovo Stato membro, una volta acquisito pienamente il suo status, parteciperà alla costruzione europea riempiendo di significato quei valori, cioè arricchirà le tradizioni costituzionali che sono la piattaforma condivisa da cui gli stessi sono recuperati e animati. È la Vielfalt, quella molteplicità caratterizzante l’Unione europea; una nozione nata dalla dottrina tedesca e spesso richiamata in Italia da Paolo Grossi e Beniamino Caravita. Il nostro Autore cita tale concetto nelle sue conclusioni, definendolo “valore qualificativo dell’identità europea”, quasi si dovesse intendere come superiore all’elencazione dell’art. 2 TUE (un vero e proprio “meta-valore”). Il filo rosso che tiene insieme, in filigrana, lo scritto in commento è proprio il tentativo di cogliere questa complessa dialettica che si nasconde dietro ai requisiti, alle procedure, ai periodi di osservazione, ai report, alle riforme che gli Stati candidati sono chiamati ad adottare. Questa volontà di cogliere il momentum costituzionale dell’integrazione europea proprio in quei meccanismi che chiamano gli Stati, già membri o nuovi arrivati, a costruire insieme i motivi, spirituali prima che materiali, di questa unione sempre più stretta.
Il metodo. L’Autore, rifacendosi ad un rodato canone, lascia che gli elementi teorici emergano dall’analisi della realtà. L’allargamento sta seguendo da tempo la linea ovest-est, con un’importante direttrice orientata sui Balcani occidentali e una seconda, attualissima, che guarda più a oriente, verso la Moldova, l’Ucraina e la Georgia. La dinamica dell’integrazione, basata su stretti piani di adesione e adattamento dei singoli ordinamenti candidati nel rispetto dell’art. 49 TUE e dei cosiddetti “criteri di Copenaghen”, incontra essenzialmente un rischio: «l’adeguamento agli standard europei e l’adesione ai valori dell’Unione costituisce un vero e proprio shock per le costituzioni dei Paesi che lavorano per entrare nell’Unione. Non c’è gradualità, ma la necessità di adottare dei pacchetti di riforme che stravolgono l’ordinamento spingendolo in modo deciso e a velocità accelerata verso la conformazione a tutti i canoni propri dello stato di diritto e verso l’acquisizione di tutte le caratteristiche proprie delle liberal-democrazie europee. […] negli Stati candidati si procede […] a piè sospinto nella certificazione costituzionale dell’adesione a valori ancora non del tutto consolidati, nell’intento che la loro formalizzazione comporti un’accelerazione nel processo di effettiva interiorizzazione. Questa dinamica crea uno scostamento tra costituzione formale e materiale i cui effetti non sono sempre del tutto prevedibili e - ciò che è più grave - possono essere talvolta dannosi. [Se si guarda all’esperienza delle adesioni del 2004,] laddove le modifiche sono rimaste solo su carta - seppur quella pregiata della Costituzione - il processo di integrazione non è riuscito: l’ordinamento sovranazionale e gli Stati membri sono entrati in una situazione di incompatibilità con quegli Stati non in grado di rispettare pienamente i valori comuni, e hanno iniziato un graduale processo di rigetto, che ha isolato questi Stati, determinando una frattura nell’Unione tale da metterne in discussione la tenuta e l’unità» (pagg. 78 e 79). Emerge, dunque, la difficoltà di valutare in concreto (e non solo formalmente) l’idoneità all’adesione del singolo Stato, soprattutto nella prospettiva della futura contaminazione che l’ordinamento costituzionale statale potrà avere sull’ordinamento unionale. Nell’esperienza dei Balcani, questo problema si mostra con forza nel caso serbo, paese candidato che ha avviato un’efficace riforma giudiziaria, ma che mantiene una collocazione internazionale antitetica rispetto a quella dell’Unione (i rapporti stretti con la Russia e l’irrisolta questione del Kosovo). Al contrario, due esempi positivi notevolmente approfonditi nel testo sono i casi di Albania e Macedonia del nord. La prima è uno Stato candidato dal 2014 e ha avviato negli anni un’incisiva lotta alla corruzione, iniziando con la riforma del proprio sistema giudiziario. La nuova legge, introdotta nel 2016, non ha solo istituito un sistema di governo autonomo della magistratura, ma ha anche introdotto un congegno pervasivo e permanente di valutazione dei singoli giudici, non solo sotto il profilo professionale, ma anche economico e morale. Si stima che nel giugno 2022, su 408 giudici passati alla valutazione, ben il 45% abbia lasciato il proprio incarico, così come il 37% dei 321 procuratori interessati. Impressiona leggere questi dati: in un certo senso, l’adeguamento alla prossima entrata nel sistema europeo non comporta solo una revisione di forme e istituti, ma perfino un forzato cambio nelle persone che incarnano i precisi ruoli istituzionali a cui si intende dare una svolta. Qualche perplessità rimane sui risvolti politici di tale “rivoluzione permanente”. Con riguardo al secondo paese citato, la Macedonia del nord, anche qui gli interventi riformatori hanno riguardato la pubblica amministrazione e la giustizia, secondo un piano tarato sul triennio 2022-2025. Interessante la lunga diatriba sul nome ufficiale del paese, terminata solo con un accordo internazionale sottoscritto con la Grecia nel giugno 2018 sulle sponde del lago Prespa.
La sostanza. Questi due elementi emersi, il “tono costituzionale” dell’allargamento e la necessità di una valutazione non formale dell’adesione al complesso valoriale europeo dello Stato candidato, si scontrano con il caso dell’Ucraina. Un paese che ha pagato con la guerra e la distruzione la sua scelta di campo a favore dell’integrazione a occidente, non da ultimo nell’Unione europea. L’invasione russa del febbraio 2022 ha visto e vede la giusta opposizione europea e il sostegno, non solo militare, della maggioranza degli Stati membri alle ragioni di Kiev. In questo ambito si è rafforzata l’idea di velocizzare il processo di integrazione dello Stato del Dnepr, aprendo un interessante dibattito giuridico sul tema. Se, infatti, risulta evidente l’impellenza politica di una più rapida adesione, alcuni problemi si pongono di certo con riguardo alla tempistica e alla valutazione sul reale adeguamento dell’Ucraina ai valori e al complesso normativo europeo. Scrive Savastano, «va rilevato come nei trattati non esista alcuna procedura speciale differenziata da quella ordinaria. […] Ciò significa che una procedura speciale per l’adesione diversa da quella di cui all’art. 49 TUE e utilizzata per le precedenti adesioni non solo non esiste, ma non può essere neanche introdotta ad hoc in ragione della straordinarietà della situazione ucraina, se non tramite una modifica ai trattati. […] A trattati vigenti, dunque, resterebbe l’ipotesi di una compressione dei tempi previsti per le varie - comunque imprescindibili - fasi» (pag. 168). In realtà, il nostro Autore indica una strada possibile, da rinvenire proprio nella formulazione “volutamente aperta” dell’art. 49 TUE, che non prevede specificatamente la necessità di un monitoraggio preventivo sulla perfetta conformazione dello Stato aderente al complesso ordinamentale europeo. Questo significa che il momento della perfetta adesione ben potrebbe slittare ad un momento successivo. Savastano sottolinea come l’interpretazione data all’art. 49 TUE sino ad oggi sia, in buona sostanza, una visione pessimistica dell’allargamento, cioè negativa verso la volontà dello Stato candidato di conformarsi realmente agli standard dell’Unione; al contrario «la procedura speciale consisterebbe […] nel premiare il carattere essenzialmente politico dell’Art. 49 TUE, lasciando al Consiglio la scelta politica di ammettere un nuovo Stato membro, che si impegnerà dopo l’adesione, a soddisfare i requisisti per la partecipazione all’Unione. Un meccanismo, dunque, basato, sulla fiducia nei confronti del nuovo Stato» (pag. 170). È lo stesso Autore a sollevare però alcune avvertenze. Innanzitutto, questo elemento fiduciario potrebbe intaccare alcune dinamiche politiche interne all’Unione, col rischio di minare l’integrità del sistema ove venisse meno una piena valutazione sull’adesione valoriale del nuovo Stato aderente; in secondo luogo, l’Ucraina resta oggi uno Stato in guerra, con tutte le conseguenze che ciò imporrebbe, a partire dal dettato dell’art. 42, par. 7, TUE.