Beniamino Caravita amava sostenere che l’allargamento europeo sul fronte orientale non fosse giustificabile solo sulla base di valutazioni di interesse né di efficienza del modello di integrazione. Il coinvolgimento dei paesi orientali nella costruzione eurounitaria fu essenzialmente il frutto di un debito culturale, la resipiscenza da un tradimento, più o meno voluto: l’abbandono oltre cortina di tutti i popoli a est di Vienna. Aprendo ad Oriente, l’Unione tentò di ricucire una ferita, che non è solo il lascito di Yalta. Ciò però impose di traghettare nel progetto unitario un insieme di esperienze culturali, politiche e giuridiche diverse e peculiari. La Polonia ne compendia e ne incarna in maniera netta lo spirito. Ben oltre la mera prospettiva economico-politica e l’alternanza al potere degli uomini forti di Varsavia, Tusk e Kaczyński (le elezioni politiche si terranno il prossimo 15 ottobre), non bisogna sottovalutare il dato permanente, geopolitico e storico. Lo Stato polacco è stato innanzitutto il sogno romantico di Conrad e Piłsudski, nato contro il duro dato geografico: l’idea che ci dovesse essere uno spazio per i popoli slavi al di fuori dell’Impero russo, da gestire in piena indipendenza, senza l’ingombrante protettorato austriaco prima e tedesco poi. Ecco, ancora oggi Varsavia è il centro promotore di un ampio spazio culturale e politico sovranazionale, ispirato a questo sentimento e da restringere pressappoco a quell’area d’Europa compresa tra il Baltico polacco, il Mar Nero ucraino e l’Adriatico croato (il famoso Trimarium). Anima pulsante di questo topos, la città di Leopoli, antica capitale della Galizia asburgica, oggi nell’Ucraina occidentale. L’Ucraina, appunto. Ciò che muove la guerra che Mosca ha scatenato contro Kiev è in fondo l’inconfessabile consapevolezza che quel pezzo di Oriente europeo si predica appendice ultima dell’ovest e non avamposto dell’est. Lo hanno di certo compreso a Washington, se è vero che l’intera strategia NATO è stata ripensata centrando l’azione di contenimento antirusso proprio sulla Polonia e sui piccoli paesi del Baltico, forniti di sempre più ampie capacità militari.
Accogliere il complesso dei Paesi orientali nel processo di integrazione europea ha significato allora inserire nella “piattaforma costituzionale” eurounitaria un ulteriore blocco politico-culturale, che si è andato a sommare a quello franco-tedesco e alle sue due appendici, una mediterranea (centrata su Italia, Spagna e Grecia) e l’altra settentrionale (Benelux e Paesi scandinavi). Più aumentano i blocchi, più difficile diviene la loro “sempre più stretta” integrazione. Soprattutto perché ognuno di questi topoi incarna differenti modelli di organizzazione politica e differenti declinazioni del rapporto tra Stato e cittadini. Molte suggestioni le lascia aperte il saggio di Ernst Jünger dal titolo “Il nodo di Gordio”, in cui Oriente e Occidente diventato due modelli “spirituali”, la cui alternatività si materializza in due differenti concezioni del potere: mentre in Occidente la sovranità trova nelle istituzioni e negli uomini che temporaneamente ricoprono cariche pubbliche solo la forma e i soggetti di una propria momentanea rappresentazione (ciò che rende possibile la pacifica successione del potere), in Oriente la sovranità si incarna in maniera totale nelle contingenti istituzioni e nei contingenti uomini al potere (ciò rende ogni successione del potere come ricostitutiva della sovranità stessa). Sono queste mere categorie concettuali, ma che ben restituiscono due prospettive alternative su cui si muove l’interpretazione del concetto di sovranità e di Stato di diritto. Emerge la difficoltà di tenere insieme tutto questo nell’Unione europea.
Nei Trattati il meccanismo dell’integrazione si gioca su una doppia spinta: l’istanza forte unitaria, predicata dall’elenco valoriale dell’art. 2 TUE e dall’elenco materiale dell’art. 3 TUE; l’istanza di tutela statale, predicata dal concetto di identità nazionale di cui all’art. 4.2 TUE e dallo stretto principio di attribuzione e di sussidiarietà di cui all’art. 5 TUE. Pressappoco lo stesso si ritrova nella CEDU e nell’obbligo di interpretazione armonica. La piattaforma costituzionale europea vive in questo dinamismo (lo dice bene Francesco Palermo): il “tono costituzionale” della costruzione europea si ritrova nell’esistenza di una forma integrata di sfere giuridiche, i ventisette ordinamenti giuridici degli Stati membri che hanno costituzionalizzato (in forma implicita o esplicita) un principio di integrazione che li rende partecipi del nuovo ordinamento eurounitario; quest’ultimo non rappresenta un terzo livello (come nei modelli federali), ma si rapporta ad essi in una formula di reciproca influenza. Se ciò è vero, però, l’integrazione non è un processo di reductio ad unum, quanto piuttosto la creazione di un meccanismo dinamico di perfezionamento (quel “dinamico bilanciamento” di Habermas, di recente ripreso da Ciro Sbailò). Ma se guardiamo alle contingenze, questa dimensione dinamica è stata sempre interpretata dalla CGUE non come carattere necessario dell’integrazione, ma come strumento di affermazione, pur sul lungo periodo, della sola spinta unitaria. L’attivismo dei giudici di Lussemburgo ha teorizzato fin dagli inizi (Van Gend en Loos, 1963) l’autonomia dell’ordinamento eurounitario. Il principio dell’effetto diretto, quello di supremazia, la dottrina dei poteri impliciti, il principio di responsabilità dello Stato, uniti poi al nucleo duro valoriale e ai diritti fondamentali, non solo esaltano la caratterizzazione sovranazionale del sistema europeo, ma rappresentano la sostanza di quel principio di integrazione, assorbito dagli Stati membri al più alto grado dei loro ordinamenti giuridici. La cristallizzazione di questo modello ha generato un movimento di assimilazione, teso a recuperare il blocco orientale all’istanza centrale, correggendo le possibili deviazioni e imponendo profondi cambi di prospettiva.
Nella recentissima pronuncia della CGUE sul caso Commissione/Polonia (C. 204/21 del 5 giugno 2023), ciò è stato ricostruito (compendiato, dice Curti Gialdino, a conferma di una solida giurisprudenza in materia) con particolare dovizia teorica dai giudici di Lussemburgo. La questione ha avuto ad oggetto la contestata legge polacca del dicembre 2019, che ha riformato l’organizzazione degli organi giurisdizionali del Paese e ha introdotto una specifica Sezione disciplinare in seno alla Corte suprema, con la competenza a decidere in merito a controversie aventi incidenza diretta sullo status e sull’esercizio delle funzioni di giudice, pregiudicando la loro indipendenza. Nella prima parte della sentenza, la CGUE, motivando in tema di competenza a decidere, entra in diretto scontro con il Trybunał Konstytucyjny, che nel luglio 2021 si era pronunciato sul tema rilevando come ogni azione delle istituzioni europee in tema di organizzazione della giustizia di uno Stato membro superi di gran lunga le competenze affidate dai Trattati all’Unione, nonché l’identità nazionale dello stesso, la cui garanzia ultima spetta alla corte costituzionale interna. Nella sostanza, la difesa polacca, che aveva richiamato la decisione del Tribunale costituzionale, assume gli strumenti di tutela propri dell’istanza periferica, cioè la violazione del principio di attribuzione e del principio del rispetto dell’identità nazionale, il cui utilizzo e interpretazione rimarrebbero nella disponibilità dell’ordinamento interno. A prescindere dalle ragioni della difesa statale, quello che qui si propone, a pensarci bene, è un modello alternativo di integrazione, o almeno una lettura differente rispetto a quella che tradizionalmente gli ha dato la CGUE. Non più un movimento di assimilazione, ma un processo di differenziazione, Stato per Stato, della formula di integrazione. Non è un caso che la CGUE lo stronchi in maniera netta nella decisione richiamata.
Dicono i giudici di Lussemburgo: «dalla costante giurisprudenza della Corte emerge che, sebbene l'organizzazione della giustizia negli Stati membri […] rientri nella competenza di tali Stati, resta il fatto che, nell'esercizio di tale competenza, gli Stati membri sono tenuti a rispettare gli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione e, in particolare, dagli articoli 2 e 19 TUE» (par. 63). Il complesso dei valori comuni rappresenta dunque un vincolo stringente e pervasivo, che, travalicando il riparto di competenze convenzionale, permette alla Corte un ampio sindacato, che tocca la struttura interna degli Stati membri. Questo ancor di più per quegli Stati che hanno aderito in un secondo momento al sistema unionale: «l'Unione europea si fonda su valori comuni agli Stati membri e, ai sensi dell'articolo 49 TUE, il rispetto di tali valori costituisce una condizione preliminare per l'adesione all'Unione europea […]. Per poter aderire all'Unione europea, la Repubblica di Polonia ha dovuto soddisfare i criteri […] stabiliti dal CE di Copenaghen del 21 e 22 giugno 1993. Tali criteri richiedono, tra l'altro, che lo Stato candidato assicuri “la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze”» (par. 64 e 65). La notazione è di interesse, perché nella sostanza si teorizza che per i membri di seconda generazione, entrati nell’Unione attraverso il collo stretto dei criteri di Copenaghen, il vincolo di assimilazione sarebbe assai più stringente e costituzionalmente incisivo (su questo Federico Savastano). Ciò implica che «non si può sostenere che i requisiti derivanti, quali condizioni per l'adesione e la partecipazione all'Unione europea, dal rispetto di valori e principi quali lo Stato di diritto, l'effettività della tutela giurisdizionale e l'indipendenza della magistratura […] siano in grado di incidere sull'identità nazionale di uno Stato membro, ai sensi dell'articolo 4.2 TUE. Pertanto, quest'ultima disposizione […] non può esentare gli Stati membri dall'obbligo di conformarsi ai requisiti derivanti da tali disposizioni.» (par. 72). Ancora, «anche se, come risulta dall'articolo 4.2 TUE, l'Unione europea rispetta le identità nazionali degli Stati membri, inerenti alle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali, cosicché tali Stati godono di un certo margine di discrezionalità nell'attuazione dei principi dello Stato di diritto, non ne consegue affatto che tale obbligo relativo al risultato da raggiungere possa variare da uno Stato membro all'altro. Pur avendo identità nazionali distinte, […] gli Stati membri aderiscono a un concetto di "stato di diritto" che condividono, in quanto valore comune alle proprie tradizioni costituzionali, e che si sono impegnati a rispettare in ogni momento» (par. 73). L’adesione all’Unione implica, dunque, per gli Stati membri il riconoscimento di una limitazione dei propri ordinamenti costituzionali e il loro obbligato allineamento al concetto di Stato di diritto che i trattati stabiliscono e che quindi, quale esclusivo interprete, la CGUE designa.
Lo scontro, dunque, è su come si debba intendere il modello di integrazione. Quello che la Corte ha nel tempo costruito legge la spinta unitaria come inevitabilmente prevalente, interpretando gli elementi di resistenza rinvenibili nei Trattati come strumenti di differenziazione comunque serventi alla centralizzazione e, dunque, da leggere come meri meccanismi ermeneutici del diritto eurounitario. Ciò implica un diretto rapporto tra Corte e giudici comuni interni, parti attive nel garantire l’effettività del diritto eurounitario, quasi fossero questi chiamati a una doppia fedeltà e dunque obbligando la Corte ad azioni di tutela degli stessi. Una Corte militante, insomma. Non è un caso che, nella stessa sentenza qui richiamata la Corte affermi: «gli effetti del principio del primato del diritto dell'Unione vincolano tutti gli organi di uno Stato membro, senza che, tra l'altro, disposizioni di diritto interno, comprese quelle costituzionali, possano impedirlo […]. La Corte ha stabilito che l'articolo 19.1 TUE, interpretato alla luce dell'articolo 47 della Carta, che impone agli Stati membri un obbligo chiaro e preciso […] per quanto riguarda l'indipendenza e l'imparzialità degli organi giurisdizionali chiamati a interpretare e ad applicare il diritto dell'Unione […] ha un effetto diretto, il che significa che qualsiasi disposizione, giurisprudenza o prassi nazionale contraria a tali disposizioni del diritto dell'Unione, come interpretate dalla Corte, deve essere disapplicata» (par. 77 e 78). Il rischio serio è però che tale modello risulti tutto votato ad una dimensione conflittuale, che impedisce nei fatti ricuciture e forme di conciliazione (anche solo politiche) e che ancor più alla lunga rischia di sfaldare l’omogeneità degli ordinamenti statali.
Quello che emerge invece in una certa giurisprudenza delle Corti costituzionali interne (quella polacca certo, ma potremmo dire anche in determinati momenti quella tedesca e italiana) è il tentativo di imporre una dinamica dialogante al sistema, collocando i detti strumenti dialettici quali fattori di resistenza vera e propria, lasciati nelle mani del singolo ordinamento. Ciò imporrebbe alle istituzioni europee di rispettare i modelli di organizzazione del sistema istituzionale interno, in un rapporto che resta tra ordinamenti e non tra singole giurisdizioni. L’integrazione non come assimilazione, ma come differenziazione (oltre lo sdoppiamento di Sergio Fabbrini). Quindi una CGUE non più servente alla sola istanza unitaria, ma arbitro tra centro e periferia; in dialogo con le singole Corti costituzionali interne nella costruzione del modello valoriale. Una logica propriamente alternativa.
La domanda è dunque lecita: dato un meccanismo di integrazione forzato da una pluralità di blocchi eterogenei da tenere insieme e declinare all’unisono, siamo sicuri che il primo modello sia ancora pienamente efficace e coerente? O, forse, non dovremmo pensare a tenere insieme i ventisette consolidando gli strumenti di “resistenza” in una prospettiva dialogica e differenziale, magari con uno scambio rafforzato tra le Corti nazionali e la CGUE?
Questi dubbi diventano oggi ancor più stringenti, visti gli obiettivi di breve periodo che l’Unione europea si sta ponendo in termini di allargamento. Charles Michel ha indicato il 2030 come possibile obiettivo per l’ammissione nell’Unione della Moldova, dell’Ucraina e di altri paesi dei Balcani. Ursula Von Der Leyen ha confermato nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione del settembre 2023 che l’allargamento debba essere un’occasione per un “approfondimento politico” e un “catalizzatore di progresso”. Il prossimo Consiglio europeo informale dei Capi di Stato e di Governo del 6 ottobre 2023 a Granada (Presidenza spagnola) discuterà sulla sostenibilità economica e sulle necessarie riforme istituzionale di un’Europa a 30 o a 35 membri. Se allargamento e riforma istituzionale dovranno procedere insieme, sarà fondamentale ragionare su come ricostruire il modello sul confronto tra assimilazione e differenziazione.
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