Il regime giuridico degli scambi tra Irlanda e Irlanda del Nord dopo la Brexit ha costituito il tema più complesso affrontato durante i negoziati per l’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione europea. Infatti, la soluzione faticosamente raggiunta in quella sede e contenuta nel primo Protocollo allegato all’accordo di recesso (AR) si è dimostrata di difficile applicazione (come era prevedibile) e ha rappresentato fonte di tensioni di grado ben maggiore di quanto fosse ragionevole attendersi. L’ultima tappa di questo accidentato percorso si è avuta quando il Governo britannico ha presentato al Parlamento un progetto di legge che di fatto priva di effetti parte del Protocollo e attribuisce al Governo il potere di adottare propri regolamenti per disciplinare gli scambi tra Irlanda del Nord e Irlanda e tra Irlanda del Nord e Regno Unito, secondo i principi dettati nella legge stessa.
In buona sostanza, il Regno Unito vorrebbe che il Protocollo fosse modificato, ma non potendo ottenere questo risultato in modo consensuale, posto che l’Unione si oppone ad ogni revisione, vorrebbe conseguirlo per le vie brevi, attraverso l’adozione di disposizioni di diritto interno. Per giustificare la legittimità della condotta, il Governo britannico ha invocato lo stato di necessità, ai sensi dell’art. 25 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati. Tale circostanza escludente l’illecito internazionale consente la violazione di un obbligo se è l’unico modo di proteggere un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e imminente, che lo Stato non ha contribuito a creare, e se la violazione non lede gravemente interessi essenziali della controparte. Nelle parole del Regno Unito, gli interessi essenziali da proteggere sono “The maintenance of stable social and political conditions in Northern Ireland, the protection of the 1998 Belfast (Good Friday) Agreement, the effective functioning of the unique constitutional structures created under that Agreement, and the preservation and fostering of social and economic ties between Northern Ireland and the rest of the United Kingdom”. E sono proprio questi interessi che il Protocollo mette in pericolo, “as it stands as a barrier to forming a new Executive in Northern Ireland”, rendendo quindi necessaria l’azione intrapresa. Il governo asserisce di non essere in alcun modo responsabile della situazione, senza peraltro motivare. Neppure considerato è l’impatto della violazione sugli interessi essenziali altrui.
La reazione dell’Unione europea è stata espressa dal Commissario Šefčovič, il quale ha affermato a chiare lettere che la condotta del Regno Unito costituisce violazione del diritto internazionale: “Let’s call a spade a spade: this is illegal” (SPEECH/22/3758). Alle parole sono seguiti i fatti, cioè la ripresa di una procedura di infrazione, iniziata nel 2021 e poi congelata, e l’avvio di due altre procedure di infrazione (IP/22/3676). La prima procedura riguarda l’asserita violazione dell’art. 5 del Protocollo (“Dogane, circolazione delle merci”), per avere il Regno Unito “manifestato l’intenzione di ritardare unilateralmente la piena applicazione del protocollo su Irlanda/Irlanda del Nord relativamente alla circolazione delle merci e ai trasferimenti di animali da compagnia dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord” (IP/21/1132). La decisione di inviare il parere motivato è dovuta – come si ricava dal comunicato stampa – ad un cambiamento delle circostanze poste alla base della decisione di sospendere l’iter: la Commissione aveva congelato la procedura di infrazione “in uno spirito di cooperazione costruttiva che permettesse di trovare con il Regno Unito un terreno d’incontro per una soluzione comune e condivisa. Tuttavia, questo spirito è palesemente contraddetto” dalla condotta del Regno Unito culminata nella presentazione del progetto di legge menzionato sopra. Le due nuove procedure di infrazione riguardano, l’una, l’asserita violazione degli obblighi in materia di norme sanitarie e fitosanitarie, per non avere il Regno Unito effettuato i controlli sulle merci cui è tenuto in forza del Protocollo, nonché per non aver approntato le condizioni, in termini di personale e infrastrutture, affinché i controlli fossero espletati, e per aver emanato circolari che hanno portato alla disapplicazione delle norme dell’Unione; e l’altra, l’asserita violazione dell’obbligo di trasmettere all’UE i dati statistici relativi agli scambi commerciali che coinvolgono l’Irlanda del Nord.
Colpisce una certa sproporzione tra dura condanna e reazione: la condanna, inequivoca, investe la presentazione della proposta di legge, mentre la reazione riguarda una serie di azioni legali in relazione a puntuali inadempimenti del Regno Unito, che non sono causati dalla proposta, ma ad essa preesistenti. L’Unione sembra dunque rivelare un cambio di approccio: ciò che tollerava in passato, con l’auspicio di conservare un clima favorevole al confronto, non tollera più ora che il Regno Unito ha dimostrato per fatti concludenti di non avere alcuna seria intenzione di trovare una soluzione consensuale. L’Unione non chiude la via del dialogo, tanto che, oltre al bastone (le procedure di infrazione), mostra la carota, cioè nuove idee per facilitare l’applicazione pratica del Protocollo.
La posizione della Commissione sollecita però una riflessione più strettamente giuridica. In particolare, ci si può chiedere: perché la Commissione non abbia affrontato direttamente la violazione che addebita al Regno Unito? Per rispondere a questa domanda, bisogna considerare quale sia la norma violata e quale sia il meccanismo di soluzione delle controversie esperibile. Una analisi anche superficiale della condotta del Regno Unito consente di affermare che esistono motivi a sostegno per quanto riguardala violazione dell’art. 16 Prot. che e istituisce una procedura da seguire per affrontare gravi difficoltà che possano derivare dall’applicazione del Protocollo; dell’art. 5 AR sulla buona fede, specificato negli art. 167 e 169 AR per il caso di controversie sull’applicazione dell’accordo che possano metterne in pericolo il funzionamento; nonché dello stato di necessità secondo il diritto internazionale consuetudinario. La difficoltà, però, consiste nell’individuare il meccanismo di soluzione delle controversie utilizzabile.
L’art. 12, par. 4, Prot. consente l’avvio di una procedura di infrazione per quanto riguarda le violazioni di alcune disposizioni del Protocollo stesso (quelle relative alla libera circolazione delle merci: articoli 5, da 7 a 10, 12, par. 2, co. 2), tra i quali non è compreso l’art. 16. L’AR prevede una procedura di soluzione delle controversie di tipo arbitrale, sicuramente utilizzabile per decidere ogni controversia derivante dall’accordo (e dal Protocollo, che ne costituisce parte integrante: art. 182 AR), ma la cui competenza a giudicare su interpretazione e l’applicazione di altre norme (come lo stato di necessità) non è sicura, soprattutto laddove costituiscano oggetto della domanda principale.
La via per la soluzione di queste controversie è dunque accidentata, perché permangono dei margini di incertezza circa il diritto applicabile dal tribunale arbitrale. In aggiunta, può essere utile ricordare che nell’ambito dell’azione di infrazione, la Commissione ha il controllo della fase precontenziosa e può – come è solita fare – graduare il proprio intervento in funzione dell’atteggiamento dell’altra parte; tale uso “politico” della procedura non è possibile in relazione all’arbitrato, che anzi è sottoposto a termini piuttosto stringenti per giungere a sentenza. Ancora, la via arbitrale è in qualche misura un’incognita, perché mancano precedenti. Infatti, finora non si è andati oltre la fase delle consultazioni bilaterali, avviate nel 2021 in relazione alla stessa questione che ha costituito oggetto della prima procedura di infrazione di cui sopra. Ma più in generale, i meccanismi arbitrali che, con caratteristiche simili, sono previsti in altri accordi internazionali conclusi dall’Unione con paesi terzi, rimangono di fatto inutilizzati.
In conclusione, la vicenda appare intricata e nel mezzo degli eventi è difficile capire se le parti (e soprattutto il Regno Unito) facciano sul serio oppure stiano bluffando o prendendo tempo. Tutto potrebbe risolversi in un nulla di fatto. Di certo, lo sprezzo del Regno Unito verso il rispetto delle regole da esso stesso accettate e della buona fede sorprende per uno Stato che ha voluto lasciare l’Unione per riacquistare – tra l’altro – la liberà di negoziare con i paesi terzi (Libro bianco, 2 febbraio 2017), rapporti convenzionali che proprio sul rispetto delle regole e sulla buona fede si fondano.
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