L’integrazione europea non è un pranzo di gala. Lo spazio pubblico in costruzione vive innegabilmente una dinamica conflittuale, insita nella stessa struttura dei Trattati: da una parte, un movimento di riduzione unitaria assicurato dalle istituzioni di natura propriamente sovranazionale, come anche dal primato ermeneutico della Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE); dall’altra, un movimento di resistenza statale che istituzionalmente si esprime nella natura intergovernativa del Consiglio dell’Unione e che trova una garanzia nel concetto di identità costituzionale degli Stati membri.
Esiste un ampio retroterra giurisdizionale in cui si misura il processo di integrazione, con la CGUE che recupera alla centralità europea la tutela di determinate situazioni giuridiche, spesso incontrando il contrario atteggiamento degli organi giurisdizionali nazionali, intenzionati a difendere lo spazio di autonomia che ancora gli spetta. Ben oltre logiche propriamente tecnico-giuridiche, la giurisprudenza della CGUE va letta anche quale manifestazione di specifiche scelte di politica costituzionale, volte a risolvere il conflitto tra ordinamento europeo e singolo ordinamento statale in favore del primo. Le resistenze certo non mancano: non a caso, esse si esprimono, da parte dei tribunali costituzionali, nella rivendicazione di un’ultimativa verifica del principio di attribuzione (Ultra-vires Kontrol) e del rispetto dei principi fondanti il singolo ordinamento costituzionale (contro-limiti).
Rientra in questa tendenza la sentenza n. 390 del 2021 della Corte costituzionale romena (CCR) che, con riguardo alla disciplina statale istitutiva di una specifica sede accentrata di indagine sui delitti imputabili ai magistrati, che palesava alcuni caratteri di incompatibilità con l’art. 19 TUE, ne ha salvato i contenuti perché espressione dell’identità costituzionale romena, imponendo ai giudici ordinari di non contestare la conformità al diritto europeo di una normativa su cui la CCR avesse già dichiarato la rispondenza all’art. 148 Cost. (quello che sancisce il primato del diritto europeo).
Negli anni che vanno dal 2013 al 2016, la magistratura romena ha perseguito migliaia di casi di corruzione politica, soprattutto tramite l’azione centralizzata della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA). L’impatto di questa azione sulla classe politica ha avuto risvolti non dissimili da quelli che ebbe l’inchiesta di “mani pulite” in Italia, con il risultato, però, che fin dal 2016 il decisore politico, al fine di contenerne le conseguenze, ha tentato di limitare la pervasività dei poteri istruttori della DNA (per esempio, nella collaborazione con i servizi di intelligence) e ha rivisto in senso restrittivo la disciplina penale in tema di corruttela. Soprattutto, ha instaurato uno specifico corpo investigativo per i reati commessi da magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, la Sezione per le indagini sui reati commessi all’interno del sistema giudiziario (SIIJ).
La reazione dei giudici si è concretizzata nel rinvio sistematico alla CGUE di questioni di pregiudizialità circa la compatibilità di dette novità normative con il diritto UE. La CGUE si è espressa con la sentenza del 18 maggio 2021, statuendo che il diritto europeo osta «a una normativa nazionale che prevede la creazione di una sezione specializzata del PM la quale dispone di una competenza esclusiva a svolgere indagini sui reati commessi dai giudici e dai procuratori, senza che la creazione di una simile sezione (1) sia giustificata da esigenze oggettive e verificabili relative alla buona amministrazione della giustizia e (2) sia accompagnata da garanzie specifiche che consentano […] di escludere qualsiasi rischio che tale sezione sia utilizzata come strumento di controllo politico dell’attività di detti giudici e PM che possa pregiudicare la loro indipendenza». È intervenuta allora la CCR, con la su menzionata decisione, a salvare l’impianto della SIIJ, riconducendolo al contenuto proprio dell’identità costituzionale del Paese e ritenendolo, pertanto, compatibile con l’art. 148 Cost. Nella sostanza, l’interpretazione della CGUE che esprimeva delle condizionalità alla validità della disciplina della SIIJ viene contrastata alla radice, sulla base di un’esigenza identitaria che giustificherebbe a priori la normativa.
La questione sembrerebbe chiusa: sincerata la compatibilità con l’ordinamento costituzionale e con gli obblighi di conformità all’ordinamento europeo, pur in senso derogatorio, al giudice non rimarrebbero margini di dubbio né la possibilità di diretta disapplicazione. Tanto più che, nel sistema romeno, il mancato rispetto da parte del magistrato di una decisione del tribunale costituzionale può integrare un illecito disciplinare.
I magistrati, però, non si arrendono. È la Corte d’Appello di Craiova a sollevare un nuovo rinvio pregiudiziale, avente ad oggetto ancora l’istituzione della SIIJ. Alla CGUE chiede di esprimersi (1) sulla possibilità da parte del giudice nazionale di valutare la conformità al diritto europeo di una disposizione nazionale, che ad esso sia stata dichiarata conforme da parte della Corte costituzionale e (2) sull’eventuale contrasto con il diritto europeo di una normativa nazionale (3) o anche di una prassi nazionale che dispongano una responsabilità disciplinare del giudice che non rispetti un pronunciamento della Corte costituzionale, anche quando egli sia chiamato ad applicare una decisione della CGUE che giudichi prioritaria.
La CGUE prende posizione con la sentenza del 22 febbraio 2022. Sulla prima questione, la più complessa, la Corte recupera alcuni principi cardine della sua giurisprudenza in tema di articolo 2 e articolo 19 TUE, con l’obbligo per gli Stati membri di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva del diritto dell’Unione anche garantendo l’indipendenza dei soggetti chiamati a farlo. Tale indipendenza deve essere assicurata nel più ampio contesto della divisione dei poteri, a prescindere dalla libertà di ogni Stato membro di organizzare internamente il sistema giudiziario secondo la propria specifica identità. Stando a questo impianto, nulla osta a che esistano strumenti interni atti ad imporre ai giudici ordinari di conformarsi alle decisioni della Corte costituzionale, purché questa risulti essere “indipendente” rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo. Infatti, rispetto ai risvolti organizzativi pur liberi, gli Stati non possono costruire un sistema che ostacoli il principio di primazia e pervasività del diritto europeo, che trova nel giudice ordinario l’interprete particolare dell’ermeneutica unitaria espressa dalla CGUE: pertanto, la vincolatività delle decisioni della Corte costituzionale all’interno di un ordinamento statale non può implicare «l’esclusione di qualsiasi competenza [dei] giudici ordinari a valutare la conformità al diritto dell’Unione di una norma nazionale». I giudici di Lussemburgo si spingono oltre: «nell’ipotesi in cui la Corte costituzionale di uno Stato membro abbia dichiarato che talune disposizioni legislative sono conformi a una disposizione costituzionale nazionale che preveda il primato del diritto dell’Unione, una norma o una prassi nazionale […] osterebbe alla piena efficacia delle norme del diritto dell’Unione di cui trattasi, in quanto impedirebbe al giudice ordinario, chiamato a garantire l’applicazione del diritto dell’Unione, di valutare in via autonoma la conformità di tali disposizioni legislative a detto diritto».
Nella sostanza, la CGUE impone la reductio ad unum, teorizzando come l’ordinamento europeo si costruisca nel dialogo diretto tra ogni singolo giudice e la CGUE, ben oltre ogni elemento formale di costruzione sistematica statale che sia intesa a far valere un precedente o un’organizzazione gerarchica del sistema giudiziario.
Il ragionamento viene portato alle estreme conseguenze quando la CGUE arriva a criticare il rifiuto della CCR di adeguarsi all’interpretazione da essa fornita, affermando che «qualora la Corte costituzionale di uno Stato membro ritenga che una disposizione del diritto derivato dell’Unione, come interpretata dalla CGUE, violi l’obbligo di rispettare l’identità nazionale di detto Stato membro, tale Corte costituzionale deve sospendere la decisione e investire la CGUE di una domanda di pronuncia pregiudiziale […] al fine di accertare la validità di tale disposizione alla luce dell’articolo 4.2 TUE, essendo la CGUE la sola competente a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione». Qui il discrimine è sottile: lo strumento identitario di resistenza disegnato dall’art. 4.2 TUE non è nella disponibilità delle singole Corti costituzionali, ma va valutato in sede centralizzata, così da darne ufficiale sanzione. E la chiusura è ancor più forte: «il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’articolo 267, secondo comma, TFUE, deve quindi eventualmente discostarsi dalle valutazioni di un organo giurisdizionale nazionale di grado superiore qualora esso ritenga […] che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione, disapplicando all’occorrenza la norma nazionale che gli impone di rispettare le decisioni di tale organo giurisdizionale di grado superiore».
Sulla base di tali considerazioni, la CGUE dichiara fondata la prima questione e conclude allo stesso modo per le altre due, non potendo in alcun modo la sanzione disciplinare impedire l’applicazione pervasiva e in via primaria del diritto europeo, tanto più nel caso in cui ciò derivi dal rifiuto di una Corte costituzionale di uno Stato membro di ottemperare alla decisione della CGUE.
Appare con evidenza l’elemento conflittuale di cui si parlava. La forza centripeta della CGUE si realizza in una precisa scelta di politica costituzionale, che fa prevalere secondo una logica diffusa il sindacato di conformità europea, oltre le strutture proprie dei vari sistemi giurisdizionali. Ancora di più, la Corte assume un ruolo di copertura delle decisioni dei giudici rispetto ad un potere più propriamente politico (in questo caso la Corte costituzionale viene in sostanza assimilata ⎼ non proprio a ragione ⎼ad un organo politico) col rischio, però, che la dinamica di accentramento si caratterizzi in termini puramente oppositivi, nell’ambito di una crisi istituzionale che mina seriamente la coesione interna del Paese. Più in generale, piegare gli elementi di garanzia degli spazi identitari delle Costituzioni degli Stati membri alla logica di accentramento comporta il serio rischio che essi defluiscano dalla legalità dei Trattati, mettendo a repentaglio la tenuta complessiva del sistema europeo.