Il 21 aprile 2021 è stata pubblicata una pronunzia della Seconda Camera (Zweiter Senat) del Tribunale costituzionale federale tedesco (Bundesverfassungsgericht - BVerfG) con cui è stata respinta la richiesta di tutela cautelare contro la legge di autorizzazione alla ratifica della Decisione del Consiglio del 14 dicembre 2020 relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea (Recovery and Resilience Facility-RRF). Si tratta di una puntata della terza stagione della ben nota serie “Karlsruhe e l’Unione Europea”. La prima stagione (Solange) era iniziata con la sentenza 29 maggio 1974 detta Solange I. La seconda stagione (Maastricht) con la sentenza 12 ottobre 1993. La terza e attuale stagione della serie (Ultra-vires), è iniziata con la sentenza del 30 giugno 2009 sulla ratifica del Trattato di Lisbona e contiene due essenziali novità rispetto alle giurisprudenze Solange e Maastricht: il BVerfG si riserva la possibilità di sindacare non solo l’ampliamento delle competenze dell’Unione attraverso emendamenti ai Trattati, ma anche il possibile eccesso di potere delle Istituzioni dell’Unione europea (ultra vires), nonché il rispetto dell’identità costituzionale degli Stati membri.
Tra le puntate più note di questa terza stagione vi sono l’ordinanza 14 gennaio 2014 (Gauweiler I), con la quale i giudici del Zweiter Senat avevano accettato per la prima volta di fare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, minacciando di rifiutarsi di applicare la decisione della Corte se questa non avesse accolto il loro ragionamento. Il BVerfG, tuttavia, aveva poi, con la sua sentenza 21 giugno 2016, accolto le motivazioni della sentenza della Corte UE 16 giugno 2015, in causa Gauweiler C-62/14. Tutto sommato, diceva allora gran parte della dottrina, cane che abbaia non morde!
Vi è stato, però, un colpo di scena nella successiva puntata dell’attuale stagione, con la sentenza 5 maggio 2020 (Gauweiler-II alias PSPP): il Zweiter Senat ha infatti dichiarato ultra vires la sentenza della Corte 11 dicembre 2018, in causa C-493/17, Weiss, emessa su rinvio pregiudiziale del BVerfG del 18 luglio 2017 e ha ingiunto a Governo, Parlamento e Banca centrale tedesca di disapplicare gli atti della BCE se essa non avesse dimostrato, entro tre mesi, la conformità delle sue decisioni al sindacato di proporzionalità come praticato dalle corti tedesche.
Per chi credeva che la terza stagione si fosse chiusa quando le istituzioni federali avevano fatto conoscere, a fine giugno ed inizio luglio 2020, di essere soddisfatte dalle spiegazioni nel frattempo trasmesse dalla BCE, occorre segnalare che il “serial ricorrente” Gauweiler e i suoi co-ricorrenti hanno chiesto ad agosto al BVerfG di emettere un’ingiunzione supplementare. La procedura è in corso, segnata da un incidente notevole: la ricusazione di un giudice del Zweiter Senat, accolta per sospetto conflitto d’interesse (Befangenheit), con ordinanza 12 gennaio 2021.
Altro colpo di scena con la penultima puntata: il Zweiter Senat, a seguito di una richiesta di sospensione cautelare proposta da duemila cittadini tedeschi ha statuito, il 26 marzo 2021, che in attesa della sua decisione nel merito il Presidente della Repubblica federale non potesse promulgare la legge relativa alla Decisione del Consiglio UE del 14 dicembre 2020. I ricorrenti sostengono, tra l’altro, che la Decisione non rientri nell'art. 311, par. 3, TFUE e non sia compatibile con l’art. 125, par. 1, TFUE (cosiddetta clausola di “non salvataggio”), e che si qualifichi quindi come un atto ultra vires. Sostengono anche che il “divieto di indebitamento”, che è uno dei fondamenti essenziali alla base dell’approvazione tedesca dei Trattati di Maastricht e Lisbona, sia violato. Con ordinanza 15 aprile 2021 la richiesta di tutela cautelare è stata tuttavia respinta.
È giustificato, a questo punto, tirare un sospiro di sollievo, come fanno tanti commentatori nella stampa quotidiana e sui diversi blog di diritto costituzionale o europeo?
Non è possibile rispondere a tale quesito se non si è in grado di decifrare il linguaggio giuridico (tedesco) cui fa ricorso il BverfG. L’ordinanza è lunga 49 pagine: a prima vista tanto per una pronunzia relativa ad una richiesta di tutela cautelare; tuttavia, le prime 34 pagine sono dedicate ad esporre il contenuto della legge tedesca – e quindi della Decisione UE – impugnata, nonché le argomentazioni dei ricorrenti e i contro-argomenti del Governo federale. Rimangono quindi 15 pagine per i motivi.
Vi sono due modi di leggerli. Per chi conosce la giurisprudenza del BVerfG, si tratta di un tipico Exercice de style: cioè l’esposizione della Gründlichkeit nella stesura, che conduce tra l’altro ad inserire nel testo, tra parentesi, i riferimenti non solo alla disciplina applicabile, ma anche alla giurisprudenza del Tribunale medesimo ritenuta rilevante, nonché alla dottrina maggioritaria. I giudici del BVerfG scrivono non solo per essere letti dai ricorrenti, ma anche – e soprattutto? – dai colleghi nell’Accademia: benché occorra anche a loro rileggere più volte il testo per poterlo comprendere. E ciò basta a spiegare le tre settimane di suspense, trascorse tra l’ingiunzione provvisoria del 26 marzo e l’ordinanza del 15 aprile, nonché l’ulteriore settimana trascorsa prima della pubblicazione.
Tuttavia, tenendo conto che è stato dimostrato un anno fa che un cane che abbaia può anche mordere, vi è da chiedersi se, e in quale misura, l’ordinanza non evidenzi, come tante altre puntate della stagione Ultra-Vires, l’esistenza di un’inquietante spada di Damocle. Vediamo di capire come e perché, poiché sul merito la procedura continua.
In primis, mentre per il ricorso contro il trattato di Amsterdam il BVerfG si era accontentato di un esame in Commissione di tre membri – composta, tra l’altro, dal giudice Paul Kirchhof, relatore della sentenza Maastricht – che aveva quindi respinto il ricorso in quanto senza speranze (Aussichstlos), senza ulteriore motivazione, i giudici hanno qui scelto di esaminare il ricorso in seduta plenaria. E, piuttosto che concordare in modo informale con gli uffici del Presidente della Repubblica, come sono soliti fare, un termine per un veloce esame a prima vista del ricorso, hanno scelto addirittura di indirizzare un’ingiunzione formale al Presidente.
In secondo luogo, l’ordinanza sulla richiesta di tutela cautelare spiega nei dettagli perché vi è fumus boni iuris: e, cioè, che la Decisione del Consiglio sembra, in effetti, possibilmente contraria al divieto opposto all’Unione ed agli altri Stati membri di farsi carico dei debiti di uno Stato membro. Poiché la Decisione prevede che ogni Stato beneficiario dei fondi del RRF debba farsi carico, a termine, del rimborso delle somme ad esso erogate, i giudici espongono scenari di finanze pubbliche piuttosto ipotetici per dimostrare l’esistenza del rischio e, quindi, che la Decisione possa configurare un atto ultra vires. In tale caso, dichiarano, il Zweiter Senat potrebbe addirittura dichiarare un tale atto ultra vires se non lo facesse la Corte di giustizia.
Terzo, i giudici indicano che sì, vi è periculum in mora: ma operano un bilancio costi-benefici. D’un lato, e questo sembra l’argomento determinante, spiegano che la sospensione cautelare condurrebbe a ritardi nella ratifica, addirittura tre o quattro anni se vi fosse un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: e quindi il ricorso diventerebbe privo di oggetto al momento della pronunzia sul merito. Dall’altro lato, i giudici ricordano che vi sarebbero comunque modi per la Repubblica federale di opporsi a decisioni che la conducano a prendersi in carico debiti altrui e che essa potrebbe addirittura chiedere il risarcimento per le somme ad essa indebitamente richieste (senza spiegare, a dire il vero, con quale procedura).
Vi sono già una serie di commenti molto dettagliati della dottrina tedesca su vari blog. Secondo chi scrive, quello che è inquietante è come, malgrado i loro sospiri di sollievo, molti commentatori accettino senza ulteriore critica la dottrina secondo la quale le corti costituzionali e supreme avrebbero il potere di dichiarare ultra vires un atto dell’Unione europea.
Vale quindi la pena di ricordare, a questo punto, che in pari data (21 aprile 2021), con la sentenza French Data Network et al., il Consiglio di Stato francese ha dichiarato senza se e senza ma – e con ciò rifiutandosi di seguire il pifferaio magico di Karlsruhe – che “non spetta al giudice amministrativo garantire che il diritto secondario dell’Unione europea o la stessa Corte di giustizia rispettino la divisione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri. Egli non può quindi controllare la conformità delle decisioni della Corte di giustizia con il diritto dell’Unione e, in particolare, privare tali decisioni della forza vincolante di cui sono dotate, ai sensi dell’articolo 91 del suo regolamento di procedura, per il fatto che la Corte di giustizia abbia ecceduto le sue competenze attribuendo a un principio o a un atto di diritto dell’Unione una portata che vada oltre quella prevista dai Trattati”. Secondo chi scrive, ciò che vale per la giurisdizione amministrativa francese dovrebbe valere per tutti i tribunali e le corti di tutti gli Stati membri.