Prima di affrontare la questione dal punto di vista dell’Unione europea, una premessa storica è opportuna. Va infatti chiarito che la prima Corte chiamata ad occuparsi del tema è stata la Corte di Strasburgo: la nascita di modelli familiari diversi dal paradigma tradizionale “madre-padre-figli” e lo sviluppo della scienza medica hanno infatti portato in prima battuta all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo l’assenza di un riconoscimento effettivo del rapporto di filiazione nelle famiglie omogenitoriali in molti Paesi aderenti alla Convenzione Edu. La necessità di garantire una qualche forma di tutela effettiva ai figli di tali famiglie è stata affermata in numerose pronunce; due pietre miliari, in questo senso, sono le sentenze Mennesson e Labassee c. Francia (entrambe del 2014), in cui la Corte, oltre a sottolineare che il riconoscimento giuridico legame con il genitore rappresenta parte essenziale dell’identità personale del minore, ha stabilito la centralità del criterio del best interest of the child nella regolamentazione delle vicende che lo interessano. Ogni incertezza sullo status filiationis del minore produce una lesione del suo diritto al rispetto della vita familiare: per questo, pur essendo i Paesi aderenti alla Cedu titolari di un margine di discrezionalità quanto alla regolamentazione della famiglia, nonché di pratiche e fenomeni eticamente sensibili (come la gestazione per altri, d'ora in poi GPA, spesso all’origine di queste vicende), essi devono comunque garantire mezzi di tutela adeguati al minore (trascrizione dell’atto di nascita formato in altro Paese, adozione, ecc.). In successive sentenze e pareri consultivi, la Corte ha inoltre precisato che ben possono i legislatori nazionali cercare di scoraggiare (e finanche vietare) il ricorso a pratiche come la GPA; tuttavia, il disvalore ritenuto dallo Stato insito nella condotta dei genitori non può riflettersi sul godimento di diritti fondamentali del minore, che ha diritto a vedere riconosciuto giuridicamente il proprio legame con entrambi.
Quanto appena esposto rappresenta una descrizione davvero sintetica dello scenario convenzionale, che risultava tuttavia necessaria sia per le aperture dimostrate, sia perché la richiesta di intervento della Corte di Strasburgo testimonia proprio l’emersione negli Stati aderenti alla Cedu di istanze di tutela da parte delle famiglie arcobaleno che ha interessato anche l’Italia: ci si può limitare, in questa sede, a richiamare la pronuncia n. 299/2014 del Tribunale dei minorenni Roma, la prima ad ammettere l’adozione del figlio del convivente nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, e le sentenze nn. 12962 e 19599 del 2016 della Cassazione, rispettivamente in tema di adozione e di trascrizione di un atto di nascita formato all’estero.
Naturalmente, il problema del riconoscimento non poteva che sorgere anche nell’ambito del diritto europeo. In quest’ultimo, però, la questione va affrontata da una prospettiva parzialmente diversa. Riguardo all’ordinamento sovranazionale, infatti, il mancato riconoscimento dei figli delle famiglie arcobaleno si pone non solo (e non tanto) sul piano del mancato rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, bensì su quello delle libertà riconosciute al cittadino europeo, e in particolare alla libertà di circolazione delle persone (e dunque delle loro famiglie, compresi i figli). La Corte di giustizia si è occupata della questione in tempi recenti, affermando nella sentenza V.М.А. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo» (2021) che sarebbe contrario agli artt. 7 e 24 CDFUE privare il minore del rapporto con uno dei suoi genitori nell’ambito dell’esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio Ue, o «rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso». Il motivo è chiaro: se uno Stato membro ha riconosciuto il rapporto di filiazione rilasciando un atto di nascita valido, tale rapporto deve essere riconosciuto anche dallo Stato di origine, che deve garantire da un lato al minore «di [poter] esercitare senza impedimenti, insieme a ciascuno dei suoi due genitori, il proprio diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri», e dall’altro che ciascuno dei genitori disponga «di un documento che le menzioni come persone autorizzate a viaggiare con tale minore». È vero, insomma, che la disciplina dei rapporti familiari è rimessa agli Stati membri; nel disciplinare tali rapporti, però, gli Stati membri non possono limitare il godimento delle libertà garantite ai cittadini dal diritto europeo.
Il punto è che le resistenze di alcuni Stati membri continuano a farsi sentire. In questa sede non è possibile svolgere un’analisi comparatistica adeguata, anche perché il tema dell’omogenitorialità si intreccia con temi complessi variamente disciplinati in Europa (la GPA, la PMA, la stepchild adoption, ecc.). Basti dunque pensare all’esempio italiano: nel nostro Paese, infatti, quello del riconoscimento delle famiglie formate da genitori dello stesso sesso continua ad essere un terreno di scontro politico e le aperture sul tema continuano ad essere “strappi” di sindaci arditi o di giudici particolarmente sensibili alla giurisprudenza delle corti europee. Ciò ha spinto l’Unione a reagire. Al di là del discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dalla presidente della Commissione von der Leyen dinanzi al Parlamento europeo nel settembre 2020, in cui la presidente sosteneva che «chi è genitore in un paese, è genitore in tutti i paesi», e alle enunciazioni contenute in alcune strategie Ue degli anni successivi cui il Parlamento ha dimostrato il proprio sostegno, l’iniziativa più significativa è da rinvenirsi nella proposta di regolamento adottata dalla Commissione il 7 dicembre 2022. Essa mira ad introdurre norme sul reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e degli atti pubblici di accertamento della filiazione emessi negli Stati membri e a creare un certificato europeo di filiazione. La proposta è significativa non solo perché fornirebbe adeguata tutela alle famiglie arcobaleno, ma anche per i suoi risvolti in termini di federalizing process. L’Ue, infatti, non ha competenza in materia di diritto di famiglia o sullo status giuridico delle persone: la base giuridica della proposta viene allora rinvenuta nella diversa competenza, stabilita dall’art. 81 para. 3 TFUE, ad adottare misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali.
Due sono i punti che, in questo quadro, è necessario evidenziare. Il primo: che, nell’ottica della proposta, la frammentazione che caratterizza attualmente la legislazione degli Stati membri potrebbe dissuadere le famiglie dall’esercitare il loro diritto alla libera circolazione nel timore che la filiazione possa non essere riconosciuta nel resto dell’Unione. Il secondo: che sebbene la proposta, ancora in una fase embrionale, chiarisca che le misure in cantiere «non porteranno all’armonizzazione del diritto sostanziale degli Stati membri sulla definizione di famiglia o sull'accertamento della filiazione nel contesto nazionale», non c’è dubbio che anche i Paesi più restii dovranno dotarsi di strumenti adeguati per riconoscere lo status di famiglie che sino ad ora si è stentato a legittimare. In altre parole: nonostante l’Unione non sia dotata di competenza in materia, e quindi faccia leva su un aspetto procedurale (quello del mutuo riconoscimento), un certo grado di armonizzazione (sostanziale), qualora il regolamento dovesse vedere la luce, dovrà essere di fatto raggiunto.

È proprio questo il punto: il riconoscimento dello status giuridico delle famiglie omogenitoriali è stato ottenuto, come spesso accade, attraverso le rivendicazioni provenienti dal basso e indirizzate alle autorità giurisdizionali; questo, come si diceva, non rileva solo ai fini del progressivo riconoscimento di un certo grado di tutela a cittadini che ne sono, stando al diritto positivo, spesso sprovvisti. A voler guardare il fenomeno in una prospettiva più ampia, quell’attivismo giudiziario che si è scontrato con le resistenze degli Stati più conservatori ha spinto l’Unione ad utilizzare gli strumenti che le sono propri per accentrare (nei termini poc’anzi precisati) la disciplina dei modelli familiari, nell’ottica di un’accelerazione del processo di integrazione.


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