L’adozione del Next Generation EU (NGEU) è stata giustamente descritta da più parti come un momento di svolta nel processo di integrazione europea, mettendone in luce i numerosi aspetti di significativa novità. Vi è chi, nell’imminenza della sua adozione, ha addirittura parlato di momento Hamiltoniano per il processo di integrazione europea. Per quanto tale ricostruzione sia poi stata accantonata, non vi è dubbio che gli elementi di novità siano molti e sostanziali. A partire, sul lato del finanziamento, dalla creazione di uno stock di debito comune, fino ad arrivare alle modalità di erogazione delle risorse, non più solo attraverso prestiti, ma anche sovvenzioni. Si tratta di scelte che traducono in termini concreti e tangibili il concetto di solidarietà interstatale, in un periodo di estrema difficoltà come quello rappresentato dalla pandemia.
Queste brevi riflessioni si concentrano su un profilo diverso, vale a dire il contributo del NGEU alla costruzione di una politica economica comune, provando ad esaminare le ripercussioni di carattere sistemico del NGEU. L’ipotesi è che il NGEU contribuisca a rafforzare ulteriormente la capacità delle istituzioni europee di porre limiti qualitativi in materia di politica economica e che tale svolta ponga importanti questioni quanto alla democraticità dell’intero sistema.
Come è ampiamente noto, l’Unione Economica e Monetaria (UEM) ha una natura marcatamente asimmetrica, posto che alla creazione di una vera unione monetaria non si è accompagnata la creazione di un’unione economica altrettanto forte.
Secondo l’impianto originario, la politica economica dell’Unione si fonda su due pilastri. Uno di natura quantitativa, apparentemente più stringente, rappresentato dal divieto di disavanzi pubblici eccessivi di cui all’articolo 126 TFUE. Uno di natura qualitativa, espresso in termini molto blandi: l’art. 5 TFUE prevede che gli Stati procedano semplicemente a coordinare le loro politiche economiche, prevedendo un intervento del Consiglio finalizzato solo alla fissazione di “indirizzi di massima”.
Un primo tentativo di rafforzare tale secondo pilastro si è avuto con il Semestre europeo, creato dal Reg. (UE) n. 1175/2011. Per questa via si voleva rafforzare la capacità delle istituzioni europee di influenzare le scelte nazionali di politica economica: in alcuni casi questa connessione ha portato ai risultati sperati, ma, in larga misura, gli Stati hanno ignorato o seguito in maniera parziale le raccomandazioni adottate nell’ambito del Semestre.
Il salto di qualità si è avuto con i programmi di assistenza finanziaria e l’utilizzo in questo contesto della politica di condizionalità. La scelta di condizionare l’erogazione dei fondi di assistenza all’impegno da parte degli Stati beneficiari di adottare determinate riforme strutturali ha costituito una caratteristica strutturale di tutti i programmi di assistenza finanziaria. La “condizionalità rigorosa” – per molto tempo intesa come austerità – è stata codificata all’art. 136 TFUE ed è stata considerata un obbligo per garantire la compatibilità degli interventi di assistenza finanziaria con l’art. 125 TFUE nella sentenza Pringle. La politica di condizionalità ha enormemente aumentato la capacità delle istituzioni europee, e soprattutto della Commissione, di condizionare le scelte di politica economica a livello nazionale, almeno per i Paesi più deboli. Nel quadro dei programmi di assistenza finanziaria, tale capacità è stata ulteriormente rafforzata, facendo ricorso a strumenti giuridici esterni all’ordinamento dell’UE, alle sue logiche e alle sue garanzie. Ciò si è tradotto nell’adozione di riforme strutturali nel cui ambito i diritti sociali, e i meccanismi nazionali preposti alla loro realizzazione, sono stati considerati come costi da ridurre al fine di perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio o fattori produttivi la cui funzione primaria era contribuire al miglioramento della competitività del Paese a livello internazionale.
L’erogazione di gran parte delle risorse del NGUE – circa 672 miliardi di euro – avviene sotto forma di sovvenzioni e prestiti, per il tramite del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza. Il Dispositivo è stato istituito dal Reg. 2021/241, adottato sulla base dell’art. 175(3) TFUE. La disposizione, collocata nel Titolo sulla coesione, economica, sociale e territoriale, consente a Parlamento e Consiglio di adottare “misure specifiche” al di fuori dei Fondi strutturali. La scelta della base giuridica è significativa sotto diversi punti di vista.
In primo luogo, essa segna una netta presa di distanza rispetto all’impostazione di politica economica che aveva ispirato l’assistenza finanziaria in occasione della precedente crisi, la quale aveva l’obiettivo di assicurare la stabilità finanziaria anche a costo di mettere a rischio la coesione sociale. In secondo luogo, la scelta conferma la necessità di andare oltre al Titolo del Trattato sulla politica economica alla ricerca di basi giuridiche alternative per il completamento dell’unione economica. L’art. 175(3) TFUE costituisce un’opzione interessante in questo senso, stante l’indeterminatezza della nozione di “misure specifiche” adottabili dal legislatore.
Il funzionamento del Dispositivo segue una procedura complessa e caratterizzata dalla compresenza di istanze sovranazionali e intergovernative. Per beneficiare di sovvenzioni o prestiti, ogni Stato membro ha dovuto presentare un Piano per la ripresa e la resilienza. Il Piano è stato redatto seguendo le raccomandazioni specifiche adottate nel contesto del Semestre europeo, nonché al fine di rafforzare il potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza sociale ed economica dello Stato membro. A tali obiettivi si aggiungeva l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale. Ciascun piano è, dapprima, valutato dalla Commissione e, successivamente, approvato a maggioranza qualificata dal Consiglio attraverso l’adozione di una decisione di esecuzione. La Commissione, insieme al Comitato economico e finanziario, deve controllare il raggiungimento degli obiettivi intermedi previsti dai Piani da cui dipende l’erogazione delle tranche successive.
Il meccanismo riproduce la logica della condizionalità, vale a dire quella che è stata efficacemente descritta cash-for-reforms approach. Rispetto alla condizionalità nell’ambito dei programmi di assistenza finanziaria, quella del NGEU presenta importanti profili di novità e discontinuità. In particolare, dal punto di vista istituzionale, il meccanismo è stato creato e opera all’interno dell’ordinamento dell’Unione, dunque, dovendo rispettare le norme in materia di diritti fondamentali; dal punto di vista sostanziale, si è abbandonata l’idea che condizionalità debba necessariamente significare austerità.
Restano alcuni aspetti che suscitano non poche perplessità e preoccupazioni. In particolare, ci si domanda se l’ennesimo potenziamento di quella che abbiamo definito la dimensione qualitativa dell’intervento delle istituzioni europee in materia di politica economica, vale a dire la loro capacità di influenzare le scelte adottate dai governi nazionali, sia compatibile con il mantenimento di un approccio fortemente tecnocratico e dominato dal potere esecutivo, a discapito degli organi rappresentativi dei cittadini.
Quanto al primo aspetto, la sensazione è che le tanto agognate riforme strutturali siano considerate, anche in questa circostanza, come il risultato di un esperimento scientifico (si veda, a tale riguardo, l’art. 19 del Reg. 2021/241, relativo alla valutazione dei Piani nazionali da parte della Commissione) più che come l’esito di un dibattito politico nel quale confluiscono posizioni divergenti e si cerca un punto di convergenza frutto di compromessi tra le parti.
Vi è, poi, un ulteriore profilo problematico, riguardante la selezione delle priorità alle quali devono tendere le riforme previste dagli Stati membri nei loro Piani nazionali. Gli Stati erano tenuti a prevedere che almeno il 37% delle risorse fosse investito in progetti che contribuiscono alla transizione verde, mentre il 20% per la transizione digitale. Senza voler mettere in dubbio l’importanza e l’urgenza di questi obiettivi, occorre segnalare come gli stessi siano stati individuati unilateralmente dalla Commissione, senza un vero dibattitto democratico. La transizione digitale e quella verde sono passate dall’essere priorità del programma di lavoro presentato a gennaio 2020 dalla Commissione ad obiettivi fondamentali del più importante pacchetto finanziario mai messo in campo dell’UE. Non risulta che vi sia stato alcun dibattito sulla loro individuazione o sull’opportunità di affiancarne altri, ugualmente urgenti in questo periodo di crisi, quale, ad esempio, il contrasto alla crescente diseguaglianza economica e sociale all’interno degli Stati membri.
Tale stato delle cose è particolarmente problematico in ragione dell’impatto che le scelte adottate a livello nazionale hanno sullo sviluppo della politica economica ed industriale a livello nazionale e della pervasività di tale incidenza.
Quanto precede si connette con la perdurante marginalizzazione del Parlamento europeo, per ciò che riguarda la valutazione dei Piani e la gestione delle risorse del NGUE. Marginalizzazione che può considerarsi, almeno in una certa misura, autoimposta visto che l’atto è stato adottato secondo la procedura legislativa ordinaria. Il coinvolgimento del Parlamento si ha solo nell’ambito del dialogo interistituzionale di cui all’articolo 26 del Reg. 2021/241. Si ritiene che si sarebbe potuto fare di più, anche se una parte consistente delle risorse assegnate al Dispositivo – quella destinata a essere erogata sotto forma di sovvenzioni (312 miliardi di euro) – non è parte del budget UE e, quindi, soggetta al controllo parlamentare, trattandosi di entrate con destinazione specifica esterna.
(una versione più estesa del post è stata già pubblicata sugli Annali AISDUE)