A un anno e mezzo dall’insediamento di Christine Lagarde alla Presidenza della BCE è possibile fare un primo bilancio della politica monetaria di Francoforte. L’ex Direttrice del FMI ha ricevuto in lascito dalla Presidenza Draghi un ampio arsenale di misure necessarie a bilanciare le politiche fiscali deflazionistiche adottate dagli Stati membri. Fra queste svetta il PSPP, un vasto programma di acquisto di titoli pubblici che ha attirato le attenzioni del BVerfG, il quale, con un rinvio pregiudiziale del 2017, ha chiesto alla CGUE se tale programma violasse i Trattati. Da questo punto di vista, la Presidenza Lagarde si è posta in continuità con il passato. Il PSPP, interrotto il 13 dicembre 2018, è stato rinnovato il 12 settembre 2019, a causa di un nuovo calo del tasso di inflazione nell’Eurozona. Forte dell’appoggio della CGUE – che nella sentenza Weiss ha finalmente riconosciuto l’impossibilità di distinguere fra misure di politica monetaria e di politica economica – la BCE ha ripreso ad acquistare i titoli pubblici dei Paesi membri proprio in corrispondenza dell’insediamento della Lagarde.
Una nuova sfida ha, tuttavia, richiesto l’intervento della BCE. La diffusione della Covid-19 ha, infatti, spinto gli Stati membri a adottare misure di contenimento del contagio che hanno provocato una caduta verticale del Pil dell’Eurozona. Di fronte a tale situazione, la BCE ha inizialmente assunto una strategia minimale annunciando un programma di QE pari a soli 120 miliardi. Nella conferenza stampa del 12 marzo 2020 la Presidente Lagarde affermò che non fosse compito della BCE uniformare i rendimenti dei titoli pubblici dei Paesi membri. La frase fu accolta con stupore, sebbene la Lagarde avesse semplicemente ricordato quale fosse l’originaria funzione di Francoforte, sancita nel Trattato di Maastricht. Ciò che la Presidente non aveva, forse, tenuto a mente nel rilasciare tale dichiarazione è che, nel frattempo, gli obiettivi della BCE si sono ampliati considerevolmente. Non si può negare, infatti, che i programmi di QE di Draghi, nonostante perseguissero l’obiettivo di un tasso di inflazione stabile e prossimo al valore di riferimento del 2% annuo, abbiano facilitato il finanziamento degli Stati membri, abbassando il rendimento dei titoli pubblici. È questa la ragione per cui sono misure malviste dai conservatori tedeschi oltreché dalla Bundesbank: il PSPP consentirebbe ai Paesi membri, specialmente mediterranei, di eludere la disciplina di bilancio iscritta nei Trattati.
Incalzato dai Paesi membri, consci dell’impossibilità di fronteggiare la pandemia senza indebitarsi a tassi di interesse prossimi allo zero, il 24 marzo il Consiglio direttivo della BCE ha, pertanto, varato il PEPP, un ulteriore programma di acquisto che adotta un “approccio flessibile”, privilegiando, almeno nei primi mesi dell’emergenza, la compravendita di titoli emessi dai Paesi più in difficoltà. Inoltre, l’originaria dotazione del PEPP, pari a 750 miliardi di euro, è stata in seguito portata a 1350 miliardi e, infine, a 1850 miliardi, ma dato il perdurare della pandemia non si può escludere che il programma possa essere ulteriormente ampliato. Siamo di fronte ad uno strumento di politica economica del tutto servente alle esigenze di bilancio degli Stati membri, sebbene la BCE continui a ribadire che il nuovo programma ha l’obiettivo di sostenere una stabile crescita dei prezzi. A dimostrazione di ciò, i tassi di interessi sui titoli pubblici decennali si attestano al minimo storico, nonostante il vertiginoso aumento dell’indebitamento pubblico dovrebbe, secondo la teoria economica classica, portare ad un loro aumento.
Sotto la spinta dell’emergenza Covid, la Presidente Lagarde ha, perciò, fatto un passo ulteriore rispetto al proprio predecessore. Il PEPP fa, infatti, cadere in maniera definitiva la distinzione, declamata nel Trattato di Maastricht, fra la politica monetaria, devoluta alla BCE, e la politica economica, rimasta agli Stati membri. È evidente, infatti, come la BCE, perseguendo sia la stabilità dei prezzi che la crescita del PIL, sia ormai una vera banca centrale al pari della Federal Reserve. A dimostrazione di ciò, ampliando la dotazione del PEPP, la BCE ha precisato che continuerà ad acquistare titoli pubblici fino a quando il Consiglio direttivo “riterrà conclusa la fase critica legata al coronavirus”, slegando, quindi, la misura dall’obiettivo della stabilità dei prezzi. In sintesi, sembra acclarato che il PEPP costituisca un passo in avanti verso forme più avanzate di integrazione. Tuttavia, la compravendita di titoli viene sempre effettuata dalle banche centrali nazionali e non vi è alcun regime di condivisione del rischio: in caso di fallimento di uno Stato membro le perdite saranno sopportate esclusivamente dalla rispettiva banca centrale. Siamo ancora ben lontani da forme di “comunitarizzazione” dei bilanci nazionali. E non potrebbe essere altrimenti: una decisione di tale portata non potrà mai essere presa dalla BCE, ma dagli Stati membri.
Sulla continuazione del PEPP, peraltro, vi sono due incognite. La prima di queste è la pressione esercitata su Francoforte dalla Germania. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, il recentissimo rigetto di ulteriori ricorsi contro il PSPP da parte del BVerfG non fanno presagire la fine della contesa con la CGUE. Obiettivo di Karlsruhe, infatti, non sembra essere porre fine alle misure di QE. Piuttosto, avendo – tramite la decisione sul PSPP – implicitamente riconosciuto gli inevitabili effetti di politica economica delle misure prese dalla BCE, il BVerfG ha cambiato strategia minacciando l’uscita della Bundesbank dal PSPP a meno che Francoforte non avesse sottoposto il proprio operato al giudizio del Bundestag. Se la BCE assume decisioni politiche è necessario che sia responsabile nei confronti del potere legislativo tedesco. Una soluzione foriera di un’ulteriore frattura al principio di parità fra gli Stati membri. Eppure, è una soluzione che potrebbe essere adottata anche in futuro dato che ad oggi a Karlsruhe pendono dei ricorsi contro il PEPP. I cittadini tedeschi avrebbero così un vero e proprio potere di veto sulle operazioni di QE della BCE. Il sostegno monetario all’Eurozona potrebbe, perciò, trovarsi ad essere subordinato agli sviluppi politici di Berlino con le elezioni federali tedesche alle porte. Il pericolo è che la CDU assuma una posizione più intransigente rispetto al passato nei confronti delle politiche monetarie espansive della BCE, anche per tenere a freno la concorrenza degli euroscettici di AfD.
La seconda incognita riguarda l’inflazione. La riduzione del commercio mondiale di questi mesi e la corsa degli Stati ad aumentare le proprie scorte stanno facendo vertiginosamente aumentare il prezzo delle materie prime e dell’energia. È notizia recente che il tasso di inflazione nell’Eurozona ha raggiunto il 2% nel mese di maggio. Una tale situazione mette a rischio sia il PSPP che il PEPP, dato che, in teoria, sono misure necessarie a mantenere un tasso di inflazione vicino al 2% annuo. Se la crescita dei prezzi dovesse ancora aumentare diventerebbe sempre più arduo per la BCE giustificare la propria continua immissione di liquidità. È vero che, con il PEPP, Francoforte ha manifestato una maggiore attenzione alla crescita del PIL piuttosto che alla stabilità dei prezzi, ma è difficile immaginare che il perseguimento del primo obiettivo possa avvenire a scapito del secondo. Un tasso di inflazione eccessivo sarà guardato con sempre maggiore preoccupazione dall’opinione pubblica tedesca, storicamente molto sensibile sul tema. E rafforzerà le forze euroscettiche, le quali hanno già tentato la carta del ricorso al giudice costituzionale. Ciò potrebbe indurre la BCE a rivedere la propria politica di acquisto già prima che il PEPP diventi oggetto di un nuovo capitolo della sfida fra la CGUE e il BVerfG.