L’analisi condotta da Omar Chessa, a proposito delle recenti decisioni adottate dalla BCE per arginare l’attuale spirale inflazionistica, è riuscita a rintracciare, nelle pieghe argomentative dell’intervento di Christine Lagarde, taluni indizi che contribuiscono a sgretolare il mito chiave su cui si edifica l’UEM: la neutralità della moneta. Il «mito», secondo Santi Romano, esprime «una non verità, un errore, una inopia» e, come tale, non rappresenta una «realtà giuridica», ma può ben ispirarne la creazione. È questo il caso dell’UEM che, radicandosi nella concezione, intrisa di tratti mitici, della neutralità distributiva della politica monetaria, ha affidato la gestione delle sue leve a una peculiare realtà giuridica, quella della BCE, ampiamente estraniata dalla logica democratica (Faraguna; Ibrido). Infatti, poiché il governo della liquidità agirebbe senza alterare in maniera significativa la distribuzione della ricchezza tra le diverse categorie di agenti che partecipano alla sua produzione – influenzando, quindi, «la dimensione della torta, ma non la sua distribuzione» –, la BCE, Istituzione alla quale detto governo è demandato, non necessiterebbe di essere legata al circuito politico-rappresentativo (De Sena, D’Acunto).
Tuttavia, Chessa, analizzando con scrupolo filologico le dichiarazioni di Lagarde, evidenzia, contro la narrazione ufficiale, la sussistenza di un conflitto distributivo «risolto surrettiziamente» dalle misure di politica monetaria, le quali, per tale ragione, non risultano «mai indifferenti rispetto agli interessi sociali in gioco» e favoriscono sempre «alcuni a discapito di altri» (debitori o creditori, risparmiatori o investitori, imprese indebitate o imprese solide, ecc.). A ben vedere, la riflessione di Chessa centra un aspetto nodale, sul quale già Alberto Predieri si era soffermato criticando la visione schmittiana che elevava la Reichsbank tedesca del primo dopoguerra a caso paradigmatico di «potere neutrale» (neutrale Grösse). In particolare, Predieri rimarcava che: «nulla è così lontano – oggi – dall’azione della banca centrale» come «una neutralità tecnica» così come «una neutralità eccezionale, sussidiaria» “à là Constant”. La Banca centrale, infatti, non è arbitro, ma decisore; non fa scelte meramente tecniche e imparziali, ma «fa scelte di indirizzo fra opzioni tecniche diverse».
In sostanza, è una pura petizione di principio considerare neutrali le funzioni della BCE: le modalità attraverso le quali quest’ultima gestisce la liquidità del sistema incidono sempre sulle dinamiche e sugli esiti dei conflitti allocativi. Conflitti che sono, per definizione, politici (Chessa).
Ma, se così stanno le cose, se, cioè, è impossibile ridurre la politica monetaria a mera procedura decisionale neutra nelle ricadute (Manetti), come si possono sottrarre i suoi obiettivi redistributivi alla «sfera delle decisioni propriamente politiche», per affidarli «a una istanza tecnica indipendente, venendo così a costituire obiettivi o parametri politicamente non disponibili» (Onida, in Masciandaro, Ristuccia)?
Per tentare di fornire una soluzione alla suddetta aporia, credo che all’opportuna pars destruens contenuta nel commento di Chessa, e dedicata a disvelare l’incoerenza del mito della neutralità della moneta, occorra affiancare una conseguente pars construens. Preme, perciò, individuare un possibile antidoto di cui si potrebbe fare uso se si volesse approfittare del «momento costituzionale» di cui ragiona Andrea Morrone, per «riscrivere il patto fondativo dell’Unione europea» e, soprattutto, dell’UEM.
A tale proposito, la principale criticità su cui occorrerebbe intervenire, in positivo, appare la “costituzionalizzazione” del potere monetario, ossia il fatto che quest’ultimo sia stato codificato direttamente in una fonte giuridica di matrice costituzionale: il diritto primario dell’UE. In effetti, un simile assetto, inaugurato con il Trattato di Maastricht (Saitto), ha blindato, a livello di dogma cogente, l’ampia indipendenza riconosciuta alla BCE (art. 130 TFUE) e il suo mandato prioritariamente incentrato sul mantenimento della stabilità dei prezzi (art. 127 TFUE). Di conseguenza, l’orientamento finalistico del governo della liquidità è divenuto parte integrante del settore non controverso della disciplina costituzionale europea.
In concreto, l’indirizzo monetario, posto dal Trattato al di là della portata delle maggioranze rappresentative, risulta ormai rimosso dall’orizzonte del processo decisionale democratico e, dunque, sottratto sub specie eternitatis alla libera disponibilità degli organi di direzione politica europea (Chessa). Questo perché la salda riconducibilità di detto indirizzo alla fonte primaria dell’UE di tenore costituzionale implica di necessità, per la sua variazione o correzione, il ricorso alla rigida procedura di revisione “meta-costituzionale” di cui all’art. 48 TUE, che richiede una decisione unanime di tutti gli Stati membri e il completamento di ventisette processi di ratifica nazionali (Ibrido). Si tratta di un meccanismo procedurale che, proprio per l’altissimo grado di consenso politico richiesto, rende estremamente improbabile, se non impossibile, il raggiungimento di un qualsiasi risultato.
A fronte di una simile ricostruzione, tra due opzioni estreme, dell’accondiscendenza passiva alle tensioni democratiche che la permanenza nell’UEM comporta, da un lato, e dell’uscita dall’euro (e forse dalla stessa UE: Losurdo), da un altro, è forse possibile attivare una terza strategia: quella della «de-costituzionalizzazione», che condurrebbe a una conseguente «ri-politicizzazione», dell’intero settore monetario europeo (Grimm). In altri termini, punto focale del dibattito, ormai entrato nella sua fase decisiva, sulla riforma della governance economica europea (Buzzacchi; Chessa in Dolso; Domenicali; Guazzarotti; Lupo; Antonelli, Morrone; Salmoni) dovrebbe essere quello di riscrivere i Trattati vigenti espungendo le norme di diritto primario che incorporano indirizzi prescrittivi di politica monetaria – artt. 127 e 130 TFUE, in primis – e declassandole al rango di diritto secondario dell’UE.
Ciò – si badi bene – non significherebbe in alcun modo delegittimare le politiche monetarie perseguibili dall’UE, bensì esclusivamente garantirne l’apertura alla libera competizione democratica (Dani, Menéndez). L’orientamento finalistico della moneta, invece di trovare soluzione definitiva nei Trattati, verrebbe riservato al fluire della decisione politica delle Istituzioni rappresentative europee, divenendo, pertanto, democraticamente contendibile dal circuito legislativo ordinario, incarnato dal binomio Consiglio-Parlamento UE (Dani). In questo modo, il trade-off distributivo intrinsecamente sotteso alla circolazione monetaria smetterebbe di essere risolto surrettiziamente da un’Istituzione tecnocratica indipendente e verrebbe esplicitato nelle decisioni del Legislatore europeo, con tutte le conseguenze che ne discenderebbero per la tenuta del costituzionalismo democratico.
Naturalmente, una simile soluzione de iure condendo, implicando l’impervia via dell’emendamento ai Trattati vigenti, rischia di qualificarsi come una battaglia persa. Ma le battaglie perse non sono meno giuste perché perse. Del resto, rientra nei compiti della scienza costituzionalistica quello di opporsi sempre alla semplificazione comunicativa (anche della BCE), richiamando la comunità dei consociati alla necessità di prendere posizione su questioni rilevanti – com’è, senz’altro, la conduzione degli affari monetari – dopo averne adeguatamente esaminato i pro e i contro.
Questo vale, a maggior ragione, in considerazione dell’attuale congiuntura economica negativa, segnata da un’inflazione dilagante e dalle preoccupanti crisi della Silicon Valley Bank e di Credit Suisse, che pongono la BCE di fronte all’ennesimo bivio (politico): proseguire con la stretta monetaria per contenere i prezzi o invertire la rotta per non mettere a rischio il settore bancario?
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