Non scoppierà la guerra tra Francia e Regno Unito. Non serve certo un particolare acume per spingersi a fare questa affermazione, né tantomeno indovinare questa previsione può conferire una patente di “analista politico”. Bisogna però chiarirlo, perché il sensazionalismo è ormai talmente diffuso nella stampa e tra gli esponenti politici di alcuni Stati europei da rasentare l’irresponsabilità. Proliferano già formule affascinanti per definire la “Guerra della pesca” come “Prima guerra di Brexit”, con lo spettro di “nuove Falklands” e infelici paragoni che vogliono dar vita ad una discutibile gara di fantasia nella scelta degli strumenti di schermaglia diplomatica, dove Macron, nel minacciare di togliere l’elettricità all’isola di Jersey, diventa addirittura meno clemente di Hitler (“Perfino i nazisti lasciarono la luce accesa”).
Peraltro, non bisogna mai dimenticare che i valori possono definirsi “solidi” solo se vengono coltivati ogni giorno: la democrazia sembrava essere un valore acquisito in Turchia, prima che assistessimo all’epopea di Erdogan, così come credevamo ormai “irreversibile” la direzione che aveva preso la transizione negli Stati dell’Europa orientale, salvo poi dover assistere al vacillare di alcuni elementi cardine dello Stato di diritto. Anche la pace non va data per scontata: più volte negli ultimi anni ci siamo ritrovati ad assistere al “precipitare” di situazioni che credevamo stabili, anche vicino casa, come l’Ucraina che perde militarmente una parte del proprio territorio.
La vicenda di Jersey è – si spera – molto meno di tutto questo, ma ha un significato molto più grande. Essa è inequivocabilmente la figlia primogenita di Brexit e, sulla base dei tempi e dei modi in cui si risolverà, si potrà capire se resterà o meno figlia unica.
Ma andiamo per gradi. L’Accordo sugli scambi e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito è stato raggiunto il 24 dicembre 2020, a una settimana esatta dalla fine del periodo di transizione. Uno dei problemi principali per cui si è arrivati last minute al raggiungimento di un’intesa è stato proprio la regolamentazione della pesca. L’intera rubrica quinta della Parte II del trattato sulle relazioni post-Brexit è dedicata a questo tema: l’Unione europea si è impegnata a diminuire del 25% il pescato nelle acque costiere britanniche in 5 anni, terminati i quali negozierà annualmente la quota nell’ambito del “Comitato specializzato della pesca”, istituito dall’art. Inst. 2, cap. III dell’Accordo.
Va tenuto presente che il governo di Johnson avrebbe voluto una riduzione pari al 60% in tre anni. Ben lontana dal risultato ottenuto. Questo spiega facilmente perché proprio sulla pesca è rischiato di saltare l’Accordo e perché si è arrivati alla firma così tardi, quando ormai il “No-Deal” sembrava inevitabile. E questo spiega anche perché la prima controversia nell’era post-Brexit sia sorta proprio sulla pesca.
Ricapitoliamo in breve cosa è successo: il Regno Unito ha sì acconsentito ad una riduzione inferiore a quella che avrebbe auspicato ma ha poi adottato misure restrittive tese a scoraggiare la pesca da parte delle navi europee. Nello specifico, le navi francesi sono state sottoposte ad un irrigidimento dei controlli burocratici che ha seriamente compromesso la possibilità di condurre fruttuosamente l’attività economica cui sono preposte.
Questi controlli sono stati operati sfruttando il possesso dell’isola di Jersey che pur essendo, appunto, un’isola, costituisce una vera e propria enclave in territorio francese, trovandosi a soli 20 km dalla penisola di Cotentin, in Normandia e a più di 160 km dalla più vicina costa britannica.
Una sessantina di barche francesi cui è stato negato il pass per la pesca hanno organizzato una protesta al largo delle coste dell’isola, minacciando di bloccarne il porto.
Di qui l’escalation cui stiamo assistendo: le minacce (sospendere l’elettricità, che a Jersey arriva dalla Francia), le schermaglie diplomatiche e, infine le “misure precauzionali” che hanno come protagoniste due navi da guerra della Royal Navy e due motovedette della flotta di Parigi.
Come si diceva, ciò che fa sensazione non è tanto l’episodio in sé. Il Regno Unito non è più uno stato membro dell’Unione del 31 gennaio 2020, quindi da circa quindici mesi. Fino al dicembre dello stesso anno, i rapporti tra Regno e Unione sono rimasti immutati in virtù del periodo di transizione. Quindi, di fatto, sono solo poco più di quattro mesi che la separazione sta producendo effetti materiali. Quattro mesi e sei giorni e siamo già arrivati al punto di mostrare i muscoli dalle navi da guerra.
Siamo senz’altro di fronte a un atto simbolico, forse, come paventano alcuni, motivato da alcune esigenze elettorali di Johnson. Ma proprio perché “simbolico” è necessario cogliere tutti i significati che porta con sé.
Nel 2012 l’Unione europea è stata insignita del premio Nobel per la pace. Tra le motivazioni portate dal Norske Nobelkomite si legge: “The stabilizing part played by the EU has helped to transform most of Europe from a continent of war to a continent of peace”.
Il caso Jersey dovrebbe ricordarci proprio questo: il processo di integrazione europea non è nato, come molti ancora oggi sostengono, per fini puramente economici. Vale la pena ricordare alcuni passaggi: dopo la fine della II Guerra Mondiale, stanti le difficoltà a realizzare progetti di unificazione politica per i quali gli Stati del Vecchio continente non erano ancora abbastanza maturi, alcuni Paesi decisero di intraprendere la via della cooperazione usando la strada dell’integrazione economica. Tale strada fu scelta dopo il fallimento di progetti che privilegiavano l’integrazione politica (UEO) o quella militare (CED). Ma il fine comune di tutti i progetti di integrazione nati nel dopoguerra era creare uno spazio condiviso che impedisse il ripetersi delle tragedie che avevano dilaniato l’Europa nella prima metà del XX secolo.
La Comunità europea nasce per creare uno spazio entro cui gestire, quando sarà il momento, la riunificazione tedesca. Il mercato unico non era il fine, ma il mezzo. Il fine è sempre stato quello di garantire la pace tra le Nazioni europee. E dato che la gran parte delle guerre nel continente nei mille anni precedenti si erano consumate in ragione di tensioni franco-tedesche, la nuova organizzazione doveva tenere insieme queste due potenze e farsi trovare pronta nel momento in cui la Germania si fosse riunificata. E così è stato. Basta vedere le tappe del processo di integrazione: dal 1957, per trent’anni, nessun intervento significativo sul Trattato e sulla struttura dell’organizzazione. Nel 1986 arriva l’Atto Unico che pone le basi di tutti i cambiamenti che si concretizzeranno nei venti anni successivi, fino al Trattato di Lisbona. Per trent’anni nessuna modifica, poi cinque modifiche in 20 anni. Un processo di rinnovamento che inizia nel 1986: a pochi anni prima della riunificazione tedesca, della caduta del Muro e del crollo dell’Unione Sovietica.
Si legge ancora nel comunicato del Nobelkomite: The union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe. L’Unione rappresenta da più di sessant’anni uno strumento di risoluzione pacifica delle controversie per gli Stati che ne fanno parte o ne vogliono far parte: si pensi ai problemi di confine tra Italia e Austria o tra EIRE e Irlanda del Nord, che hanno perso la loro ragion d’essere grazie al contesto europeo; si pensi alle forze centrifughe negli Stati membri che si svuotano di fronte al rischio di rimaner fuori dall’Unione; o si pensi alla “questione del nome” della Macedonia del Nord, risolta con un compromesso in nome della futura adesione all’UE.
Sembra un concetto scontato: lo sapevano i padri fondatori europei, lo sapeva il giudice costituzionale italiano già nel 1964, quando ha ritenuto sufficiente l’art. 11 Cost. come base giuridica della partecipazione dell’Italia al progetto europeo, riconoscendogli così lo scopo di assicurare “la pace e la giustizia tra le Nazioni”.
Eppure è un concetto che va ricordato, soprattutto quando i fatti – o la storia – forniscono occasione di ribadirlo.
L’Europa è stata lo strumento che ha garantito più di sessant’anni di pace al continente: Brexit – l’antieuropa per eccellenza – ha portato quattro navi da guerra a specchiarsi tra loro nella Manica in quattro mesi e sei giorni.