Dopo la quarantena e il lockdown ⎼ i “brutti ricordi” di un recente passato, la pandemia, da archiviare in fretta insieme ai suoi transitori riti e oggetti di culto ⎼ ecco, “finalmente”, la ripartenza. La parola, sino all’altro ieri, era molto diffusa soprattutto tra i numerosissimi addetti ai lavori del calcio per indicare il vecchio “contropiede”, la rapida iniziativa d’attacco nata da un’insistita azione di pressing da parte della squadra avversaria.
Tutto questo appartiene ormai al passato. Oggi ripartenza è la parola italiana, per eccellenza, della post pandemia. Parola d’ordine del linguaggio di ogni giorno, sopra la bocca di tutti. La si trova sui giornali, ossessivamente ripetuta in Tv, alla radio, nelle piattaforme streaming, nei canali social. Parola simbolo. Familiare, puntuale, indiscutibile come la legge dei profeti, la parola ambisce a dar forma al nostro desiderio più profondo di un futuro che è già presente. “Semplice”, seria, anzi serissima, a suo modo (ri)costituente.
Del nuovo significato semantico della parola sono, non casualmente, fondamentali attori e veicoli il design, il marketing, la pubblicità. È giunta l’ora di ripartire, sussurrano incessantemente i poteri costituenti quotidiani dei nostri tempi. Un “messaggio” potente, utilizzato in tutte le possibili varianti (ritornare allo status precedente, andare avanti, cambiare abitudini) e per qualsivoglia prodotto e servizio da reclamizzare (abbigliamento, auto, telefonini).
Non si tratta solo di posizionamento adattivo della comunicazione commerciale al cambio di fase nella diffusione del virus. È presa di posizione attiva, diretta a forgiare lo “spirito dei tempi”. È evocazione di una nuova accattivante terra promessa nella quale la potenza dei big data verrà sempre più eticizzata, personalizzata, individualizzata e nella quale non saremo, pertanto, consegnati, come un gregge, alla dittatura dell’algoritmo. Un “nuovo umanesimo”, rispettoso del mondo fisico e spirituale. Cura della salute, dell’ambiente, delle persone in carne e ossa, della loro dignità, della ricchezza della diversità, delle cittadinanze plurime del mondo globalizzato.
Le sempre più lunghe e interminabili interruzioni pubblicitarie contengono una vera e propria codificazione e grammatica dei nuovi beni comuni del presente e del prossimo futuro. Il bello, e non più il lusso, è diventato il bene sacro e supremo di cui godiamo e godremo attraverso il cibo, l’abbigliamento, la cultura, il gusto, l’autenticità, la creatività. Dimensioni ⎼ precisano i messaggi precipuamente rivolti al pubblico italiano ⎼ in cui l’Italia eccelle a livello globale, l’italian factor che agevolerà e faciliterà la ripartenza del bel Paese.
L’estetica, la bellezza, ci aiuterà a vivere meglio. E vivendo meglio, la nostra etica, la nostra cura per gli altri e la nostra responsabilità verso il “creato”, cresceranno. Un diverso modo di produrre, di consumare, di relazionarci. Un nuovo modello di sviluppo. Sostenibile, equilibrato, generoso senza essere paternalistico, attento all’inclusione dei fragili e alla coesione sociale.
I poteri costituenti quotidiani non ambiscono a diventare in proprio poteri costituiti. I poteri costituiti parlano la loro stessa lingua. Una lingua ora depositata in un acronimo “statale”. PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Niente di commerciale in questo caso, ovviamente. Qui a dominare è, infatti, il lessico tecno-burocratico, ma l’orizzonte è lo stesso. L’aria è quella di famiglia, l’aria della grande famiglia della ripartenza che il PNRR si incarica di ricoprire di “scientifica” evidenza e rassicurante concretezza. La promessa scritta nero su bianco che la ripartenza (ripresa più asetticamente suggerisce il Piano) è sostenuta e implementata da infrastrutture tecnico-numeriche adeguate, da motori funzionali allo scopo della riscrittura del catalogo e della grammatica dei nuovi beni comuni.
L’Italia, è scritto nell’incipit del Piano, con formula apodittica, “non è destinata al declino”. Ma l’evocazione a fondamento di questa speranza, l’epopea del miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, si incarica subito di conferire alla formula il sapore di una razionale e cogente profezia. La storia economica recente mostra ⎼ è scritto sempre nella Premessa ⎼ che il nostro Paese ha registrato in quei decenni tassi di crescita del Pil e della produttività tra i più alti d’Europa. Tra il 1950 e il 1973, il Pil per abitante è cresciuto in media del 5,3 per cento l’anno, la produzione industriale dell’8,2 per cento e la produttività del lavoro del 6,2 per cento. In poco meno di un quarto di secolo l’Italia ha portato avanti uno straordinario processo di convergenza verso i paesi più avanzati. Il reddito medio degli italiani è passato dal 38 al 64 per cento di quello degli Stati Uniti e dal 50 all’88 per cento di quello del Regno Unito. Riesumati i mirabolanti numeri dell’italian factor, la ripartenza si tinge dei colori di una lirica patriottica. Gli eccezionali tassi di crescita del secondo dopoguerra sono interamente attribuiti alla combinazione di “immaginazione, capacità progettuale, concretezza”.
L’uso leggero, disinvolto delle parole, delle immagini, delle metafore, alimenta per contrasto in alcuni il gusto per la cosa più seria al mondo. Il gioco. Il ‘gioco’ in questo caso è quello della ricerca delle parole. Chi lo avesse fatto, anche per pochi minuti, con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ne avrebbe tratto un risulto inequivocabile. Il documento PNRR è un documento “programmaticamente” de-costituzionalizzato. La parola Costituzione non vi ricorre una volta. Stessa sorte per sindacato, sindacati, contrattazione, concertazione. Uguaglianza una sola volta, riferita al genere. L’aggettivo solidale una. Eguaglianza sostanziale e giustizia sociale due volte, associate ai benefici dell’apertura concorrenziale dei mercati. Solidarietà due volte, una volta intesa come solidarietà comunale, un’altra come solidarietà intergenerazionale. Equità economica e sociale cinque volte, anche in questo caso associate ai benefici della concorrenza. La parola progresso ricorre solo associata all’aggettivo tecnologico.
Ben altra accoglienza è riservata alle parole concorrenza, competitività, produttività (circa duecento volte). Alle parole impresa e imprese (oltre centottanta). Alle parole modernizzazione (quattordici) e ammodernamento (dieci). E non inganni la diffusa ricorrenza delle parole coesione e lavoratori (circa cento volte), evocati nella declinazione aziendale e neoliberale di capitale umano.
Non sono rilievi da puristi, da fondamentalisti della Carta. Non siamo di fronte ad un documento eversivo. De-costituzionalizzato non significa incostituzionale. De-costituzionalizzato significa “semplicemente” che siamo fuori dalla lente con la quale la Costituzione Repubblicana legge i conflitti, la condizione dei lavoratori, le domande di emancipazione sociale dei cittadini.
Non è un dettaglio. Ogni Costituzione prescrive come va esercitato e disciplinato il potere. Questa funzione normativa è legittimata da un grande racconto sulla fondazione della polis; sugli ostacoli che governanti e governati hanno dovuto affrontare e superare nel corso della loro storia; sulla promessa che la vita collettiva si svolgerà secondo giustizia e verità, quale che sia la declinazione che ne dà ciascuna Carta fondamentale e i diversi soggetti che hanno contribuito a scriverla.
Per questa ragione, la ricordata evocazione del miracolo economico come l “epopea” a cui attingere per sottrarre l’Italia al declino è tutt’altro che una scelta innocente. Volutamente dimenticato, con questa esclusiva evocazione, è lo straordinario decisivo contributo che a quel miracolo, diedero le forze del lavoro, della cultura, dell’imprenditoria pubblica e privata che si adoperarono, ciascuna a suo modo, affinché modernizzazione e civilizzazione camminassero insieme. Una “dimenticanza” che non può passare sotto silenzio perché il PNRR dichiara di nutrirsi di pragmatismo e visione di insieme, non vuole essere solo “un insieme di progetti, di numeri, scadenze, obiettivi”. Guarda, al contrario, alla ripartenza entro il progetto di un nuovo ordine che metta insieme presente, futuro prossimo, domani. Un orizzonte ravvicinato: riparare i danni economici e sociali della pandemia. Un orizzonte di medio termine: risolvere gli annosi problemi del sistema-Paese, divari territoriali, disuguaglianze di genere, bassa crescita della produttività, basso investimento in capitale umano. Un orizzonte di lungo periodo: transizione ecologica e sostenibilità, dalle infrastrutture all’agricoltura, dalle politiche energetiche al digitale. Dare al Paese ⎼ si dice enfaticamente ⎼ un “destino”, ponendo rimedio a ritardi, inefficienze e miopi visioni di parte che, se non risolte oggi, “peseranno sulle nostre vite, soprattutto su quelle dei più deboli, figli e nipoti”. Il PNRR come una sorta di acronimo onomatopeico per indicare “l’ultima occasione per recuperare l’ampia distanza che ci separa dagli altri paesi europei”. Un viatico della rinascita nazionale, un simbolo. Declinazione domestica di un Piano continentale, il Recovery Plan, finanziato da un debito comune e con comuni obiettivi di sviluppo ambientalmente e socialmente sostenibili affidati a specifici progetti di modernizzazione infrastrutturale ed economica.
Perché gli estensori del PNRR ritengono che così grandi ambizioni “sistemiche” possano fare a meno della grammatica dei beni comuni ⎼ principi, valori, speranze di riscatto ed emancipazione sociale e territoriale ⎼ scritti nella legge fondamentale della Repubblica? Perché gli estensori del Piano fanno affidamento su un’altra legge fondamentale. Non scritta sulle tavole della Repubblica e che, tuttavia, assumono essere dotata di una superiore forza normativa.
Sinora nell’opinione pubblica è prevalsa, con rarissime eccezioni, una totale delega all’esecutivo, una “fiducia” aprioristica nelle capacità tecniche e nel prestigio internazionale del premier designato di fatto dal Presidente della Repubblica. Rilancio e ripartenza ⎼ è il coro quasi unanime ⎼ avverranno grazie alle «mani giuste» alle quali ci siamo affidati. Il sentimento prevalente è che l’attuazione e l’implementazione dei tanti interventi previsti dal PNRR produrranno una benefica e salutare modernizzazione. E che una volta compiuta questa modernizzazione, aziende e forze di mercato daranno “autonomamente” vita, per forza autopropulsiva, ad uno strutturale e duraturo aumento della produttività e dell’occupazione.
Modernizzazione non equivale a civilizzazione. Quanti e quali tipi di treni (quanta Alta velocità, quanti treni regionali) correranno al Sud nel 2026? Quanti bambini in più andranno all’asilo nido e di quali classi sociali e territori del Paese? Verrà colmato - è auspicio universalmente condiviso- il ritardo digitale in termini di disponibilità di infrastrutture tecnologiche. Ma come verrà recuperato il ritardo culturale, quello legato alla conoscenza delle tecniche da parte dei cittadini e delle istituzioni e alla loro disponibilità a servirsene? Soprattutto in considerazione del fatto che nel settore strategico della comunicazione, le imprese che vi operano sono usualmente poco interessate a contrastare il ritardo culturale della popolazione nell’uso delle tecnologie. Su questi versanti e tanti altri il PNRR è, a dir poco, timido, se non reticente, malgrado le migliaia di pagine e di allegati che lo compongono.
Possiamo confidare semplicemente nel fatto di essere nelle “mani giuste"? 

(Estratto dal volume, di prossima pubblicazione, Postpandemia. Pensieri (meta)giuridici nella Collana Giappichelli Critica europea)