Le conclusioni dell’Avvocato Generale (AG) Bobek, presentate il 15 aprile 2021 nella causa C-561/19 (Consorzio Italian Management v. Rete Ferroviaria Italiana SpA), prendono spunto da un quesito posto dal Consiglio di Stato, relativo alla possibilità di procedere ad un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio nell’ambito del medesimo caso, e colgono l’occasione per chiedere alla Corte di giustizia di rivisitare le eccezioni all’obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza enunciate nella celebre sentenza CILFIT (C-283/81, 6 ottobre 1982). Come noto, se il testo dell’art. 267, comma 3, TFUE, impone in capo al giudice “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” l’obbligo, e non la semplice facoltà, di effettuare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, quest’ultima ha elaborato in via pretoria tre eccezioni a tale obbligo, applicabili notoriamente al solo caso delle questioni pregiudiziali di interpretazione e non di validità, che devono essere sempre sottoposte alla Corte, non potendo il giudice nazionale invalidare un atto di diritto derivato dell’Unione (par. 44-45).
Secondo la sentenza CILFIT, i giudici di ultima istanza non sarebbero tenuti a sollevare una questione pregiudiziale di interpretazione: i) se questa non è pertinente, non potendo influire in alcun modo sull’esito della lite; ii) se già sussistono precedenti nella giurisprudenza della Corte di giustizia alla luce di analoghe fattispecie analizzate in passato (“acte éclairé”); iii) se la corretta applicazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione della questione sollevata (“acte clair”). Quanto a quest’ultima eccezione, è noto che la medesima sentenza enuclea “diverse condizioni della cui sussistenza un giudice nazionale deve essere persuaso per giungere alla conclusione che non vi è spazio per alcun ragionevole dubbio” interpretativo (par. 67): prima di definire un atto “chiaro”, il giudice sarebbe difatti tenuto a raffrontare le varie versioni linguistiche della disposizione rilevante, a considerare che determinate nozioni giuridiche non presentino lo stesso contenuto nei vari diritti nazionali e a collocare le disposizioni di diritto dell’Unione alla luce del contesto, delle sue finalità e del suo stadio di evoluzione. Se ponendo condizioni così stringenti l’intento della Corte era, evidentemente, evitare che un giudice nazionale potesse sottrarsi all’obbligo di rinvio invocando arbitrariamente l’acte clair, ritenendo magari “chiare” questioni ancor suscettibili di un ausilio interpretativo da parte della Corte di giustizia, è pur vero che, come già rilevato in passato dall’AG Wahl, “incontrare un «vero» caso di acte clair sarebbe probabile, nella migliore delle ipotesi, quanto l’incontro con un unicorno” (par. 103).
Su queste basi, l’aspra critica dell’AG Bobek all’“immobile Titano” della sentenza CILFIT (par. 123), ferma ai fantastici anni Ottanta in un ordinamento euro-unitario in perenne evoluzione, segue fondamentalmente due linee di ragionamento. La prima ruota intorno alla questione della “fattibilità” (par. 99-110): “i criteri CILFIT, se presi alla lettera uno per uno, sono totalmente inapplicabili” (par. 103). Non a caso, emerge da una puntuale analisi della giurisprudenza rilevante (par. 69-87), la Corte di giustizia è stata tanto ferma nel difendere teoricamente la dogmatica CILFIT quanto oscillante nel giudicarne la prassi applicativa. In taluni casi, il giudice di Lussemburgo ha adottato un approccio restrittivo in merito all’obbligo di rinvio, ritenendo ad esempio che un giudice di ultima istanza non potesse aggirarlo, invocando l’acte clair, di fronte all’esistenza di decisioni contraddittorie emesse da altri giudici nazionali potenzialmente foriere di un’errata interpretazione del diritto dell’Unione (causa Ferreira Da Silva e Brito). In altri casi, invece, è emerso un approccio più permissivo, che ha consentito al giudice di ricorrere all’acte clair nonostante l’esistenza di un’interpretazione divergente del diritto dell’Unione da parte di un’autorità amministrativa indipendente di un altro Stato (causa Intermodal Transports), o nonostante l’esistenza di dubbi interpretativi da parte di un giudice di grado inferiore all’interno del medesimo Stato (causa X e van Dijk).
Se tali oscillazioni giurisprudenziali sarebbero già di per sé sufficienti a giustificare “l’intervento della (Grande Sezione della) Corte al fine di chiarire con precisione quale sia, attualmente, la portata dell’obbligo di rinvio pregiudiziale …e delle eventuali eccezioni a tale obbligo” (par. 87), secondo l’AG Bobek le summenzionate verifiche prodromiche all’acte clair, imposte al giudice nazionale dalla sentenza CILFIT, sarebbero sempre più difficoltose anche alla luce delle dirompenti evoluzioni del sistema giudiziario europeo nel frattempo intercorse (par. 122-130). In un contesto in cui l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione cresce in modo esponenziale, così come il numero delle lingue ufficiali e il numero dei giudici che possono adire la Corte di giustizia, “non ci si può aspettare che i giudici nazionali di ultima istanza si trasformino improvvisamente in centri di ricerca di diritto comparato dell’Unione, effettuando essi stessi, per così dire d’ufficio, ricerche nella giurisprudenza di altri giudici nazionali in altri Stati membri” (par. 156).
Il secondo ordine di problemi relativi alla dogmatica CILFIT, sarebbe invece di natura concettuale: a fronte di un obbligo di rinvio in capo ai giudici di ultima istanza concepito sulla base di esigenze oggettive e generalizzabili (garantire l’interpretazione uniforme della giurisprudenza in tutta l’Unione), l’eccezione all’obbligo di rinvio di cui all’acte clair sembrerebbe essere costruita su parametri squisitamente soggettivi e circoscritti (la mancanza di dubbi in capo al giudice quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nel caso di specie) (par. 129). È tale scollamento logico che andrebbe superato secondo l’AG, per il quale “deve cambiare l’enfasi riguardo all’obbligo di rinvio pregiudiziale, passando dall’inesistenza di un ragionevole dubbio soggettivo quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione riguardo a una specifica controversia, all’esistenza di una divergenza oggettiva individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che pone quindi in pericolo l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea” (par. 133). In altri termini, “l’interpretazione richiesta dovrebbe avere un impatto generale o generalizzabile…potenzialmente ricorrente”, qualcosa che non attenga “alla rilevanza o importanza giuridica della questione sollevata”, ma che conduca il giudice nazionale a porsi tale tipo di domanda: “la questione che sto affrontando in questo momento può sorgere nuovamente, o dinanzi a me, o dinanzi ai miei colleghi in altri Stati membri? Dovrei chieder indicazioni alla Corte nell’interesse di un’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione?” (par. 147).
Alla luce delle problematiche sia teoriche che di ordine pratico evidenziate nell’impianto della sentenza CILFIT, la proposta avanzata dall’AG è di obbligare i giudici nazionali di ultima istanza a effettuare un rinvio pregiudiziale di interpretazione “purché la causa sollevi: (i) “una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (anziché una questione relativa alla sua applicazione); (ii) su cui esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili; (iii) per la quale la risposta non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte (o riguardo alla quale il giudice del rinvio intende discostarsi da tale giurisprudenza)” (par. 134). L’AG suggerisce inoltre di interpretare tali condizioni come cumulative, nel senso che la mancanza di una sola di esse esime i giudici nazionali dall’obbligo di rinvio pregiudiziale, purché essi spieghino adeguatamente quale di tali condizioni non sia stata soddisfatta e perché.
A fronte di una lucida pars destruens, la sensazione è che l’AG non proponga alla Corte una altrettanto incisiva pars costruens, volta a superare quell’obbligo di rinvio che, se esercitato a fronte di qualunque forma di ragionevole dubbio, rischia di essere secondo l’AG non solo ingiustificato ma anche estremamente oneroso per la Corte di giustizia. È da salutare con favore la proposta di imporre un obbligo di motivazione più stringente in merito alla scelta di rinviare (o di non rinviare) alla Corte, che può certamente ridurre la discrezionalità di un meccanismo in cui i giudici sono chiamati a valutare, in indipendenza e sotto la propria responsabilità (tra l’altro sanzionabile), se si è in presenza di un atto chiaro. Ma non è detto che la proposta avanzata nelle conclusioni in commento potrà rendere più “oggettiva” la decisione dei giudici di ultima istanza, orientarla con parametri più chiari ed eventualmente indurla a rinviare con minore frequenza.