L’Unione europea nasce come un’organizzazione internazionale, seppure con non poche peculiarità, ma diventa presto, grazie all’azione, per un verso, della Corte di giustizia e, per l’altro, degli effetti della prima elezione diretta del Parlamento europeo del 1979, qualcosa di molto diverso: un ordinamento giuridico-costituzionale e, al tempo stesso, un sistema politico democratico. Diversamente da quel che talvolta si afferma, né l’uno né l’altro possono dirsi interamente e del tutto autonomi rispetto agli ordinamenti giuridici-costituzionali e ai sistemi politici, anch’essi democratici, degli Stati membri.
Se ci si pone in questa chiave, ben si comprende come si riveli fallace la lettura dell’Unione come caratterizzata da un “deficit democratico”: lettura che pure ha trovato, negli scorsi decenni, uno spazio assai ampio, anche perché comprensibilmente cavalcata dal Parlamento europeo, all’indomani della sua elezione diretta, al fine di giustificare il conseguente progressivo (e ovviamente benvenuto) ampliamento dei suoi poteri.
La lettura del “deficit democratico” è tuttavia fallace perché il sistema politico dell’Unione non è del tutto autonomo rispetto a quello dei suoi Stati membri, ma risente, in misura incisiva, dell’esito delle elezioni che si svolgono a livello nazionale, se non altro perché sono tali elezioni e i loro sviluppi all’interno delle forme di governo di ciascuno Stato membro a determinare la composizione del Consiglio europeo e del Consiglio. Similmente, del resto, le elezioni per il Parlamento europeo e il successivo processo di formazione della Commissione europea producono effetti importanti, a volte decisivi, non solo a livello europeo, ma anche sui sistemi politici degli Stati membri.
Sarebbe perciò un errore misurare il tasso di democraticità del solo sistema politico dell’Unione e compararlo con quello di uno Stato, lamentando la scarsità del primo, così come appunto accade attraverso la formula del “deficit democratico”. Se si valutano assieme il sistema politico dell’Unione e quelli dei suoi Stati membri, ciò che si riscontra non è certamente un problema di mancanza di democrazia (specie se si compara la situazione del continente europeo con altre aree del globo). All’esatto opposto, i problemi propri della democrazia dell’Unione, che indubbiamente esistono, possono essere identificati nella “disconnessione democratica” e, soprattutto, in quelle che si possono chiamare le “aritmie democratiche” che si realizzano in un’architettura così complessa: vale a dire, i tempi e i ritmi tipici delle democrazie parlamentari propri di ciascuno Stato membro, i quali tendono ad essere significativamente alterati dal processo di integrazione dell'Unione e dalle sue dinamiche democratiche, incluse quelle elettorali. Come infatti si è argomentato altrove, questo rende assai difficile un ordinato sviluppo del ciclo politico-elettorale e pressoché impossibile identificare e far valere le relative responsabilità politiche.
Queste “aritmie democratiche” nell’Unione esistono dunque in qualche misura inevitabilmente, ma l’ingegneria istituzionale, nell’Unione come nei suoi Stati membri, dovrebbe porsi l’obiettivo di attenuarle o, almeno, di non accrescerle. In particolare, esse finiscono per essere accentuate da una delle tante prassi che l’Unione europea ha mutuato dalle organizzazioni internazionali e che persistono tuttora, nonostante l’Unione abbia ormai assunto, come si osservava, una natura decisamente politica e, appunto, democratica.
Una di queste prassi consiste nel nominare, ai vertici delle numerose istituzioni che compongono l’Esecutivo “frammentato” dell’Unione, esponenti politici che precedentemente sono stati titolari, in uno dei suoi Stati membri, di cariche di governo, ai massimi livelli, e che non le occupano più, in quanto sono usciti sconfitti in recenti, o recentissimi, appuntamenti elettorali. I casi sono stati talmente tanti che non è neppure il caso di richiamarli. E la cronaca ci prospetta, più o meno fondatamente, ulteriori ipotesi di nomine di tal tipo, non appena un leader dotato di una certa popolarità, spesso pure sul piano internazionale, viene sconfitto alle elezioni del suo Paese.
È chiaro che si tratta di una prassi che ha una sua ratio ben precisa: i soggetti in questione godono di una vasta esperienza politico-istituzionale e portano con sé anche un ricco bagaglio reputazionale e di relazioni, intra ed extra-europee, in ambito partitico come nell’alta amministrazione e negli ambienti diplomatici. Un bagaglio che ovviamente può risultare prezioso per assolvere al meglio le funzioni, ad esempio, di Presidente del Consiglio europeo, di Presidente della Commissione o di Commissario europeo. Inoltre, per il Governo dello Stato membro in questione, indicare il nominativo di un predecessore appartenente a uno schieramento politico opposto può anche rivelarsi, alle volte, una soluzione utile per allargare il proprio consenso e anche per rafforzare le forme (indirette e non dichiarate, ma comunque importanti) di tutela dell’interesse nazionale in seno alle istituzioni sovranazionali.
Tuttavia, il persistere di una prassi siffatta all’interno non di un’organizzazione internazionale tradizionale, in cui essa non produce effetti particolarmente deleteri, bensì nell’ambito di un sistema politico democratico come quello europeo, in cui coesistono diversi livelli di rappresentanza e molteplici appuntamenti elettorali, finisce per originare conseguenze problematiche, e per accentuare il discredito dell’Unione agli occhi delle opinioni pubbliche nazionali. Proprio nel momento in cui ci sarebbe invece bisogno di accrescere la fiducia nelle istituzioni dell’Unione, e nei suoi vertici, chiamati a rispondere, anche in chiave globale, a sfide sempre più impegnative.
Accade perciò che leader appena sconfitti ad elezioni nazionali siano nominati ai vertici delle istituzioni europee, così offrendo agli occhi dei cittadini, specie di quelli meno attrezzati a cogliere le complessità dell’attuale democrazia europea, un esito in qualche modo opposto a quello che sarebbe stato lecito aspettarsi in base al responso elettorale e ai prima richiamati principi della responsabilità politica. Se si vuole, la prassi in questione potrebbe persino essere accusata, in chiave polemica, come volta a garantire una sorta di “promozione” su scala continentale a leader nazionali che abbiano ben meritato in chiave europea, ma siano usciti perdenti dalle elezioni ed estromessi, per una ragione o per l’altra, dal Governo dello Stato membro di appartenenza.
Non è evidentemente così, e va anche detto che molti dei leader in questione hanno svolto egregiamente le loro funzioni europee. Tuttavia, per il buon funzionamento delle istituzioni dell’Unione europea e per rafforzarne la legittimazione, sarebbe bene che i loro vertici fossero posti al riparo da ogni possibile accusa di tal tipo, e godessero il più possibile – pur nell’ambito del delicato riparto di tali cariche tra i diversi Stati membri – di una autonoma legittimazione “dal basso”, da parte dei cittadini europei, a partire da quelli dello Stato membro da cui provengono.
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