Una costituzione a tappe
Israele è un paese “senza costituzione”. Non ne ha una nel senso proprio del costituzionalismo. Dal 1787, quando fu varata la prima Costituzione scritta della storia del liberalismo politico, quel concetto è riservato solo ai popoli che hanno enunciato i principi guida del governo in una carta “monodocumentale”. Israele, come il Regno Unito, ne è privo. Le sue regole costituzionali si trovano sparpagliate in tante “leggi fondamentali” (Basic Law), che si occupano di aspetti diversi. C’è una ragione politica. All’atto di nascita, dopo la dichiarazione d’indipendenza (1948-1950), le divisioni tra i partiti, religiosi e laici, spinsero la Knesset (che assunse il ruolo anomalo tanto di un’assemblea costituente quanto di un normale parlamento) a non stabilire le regole dello stato nascente in un testo scritto unitario e una volta per tutte. Lo rinviarono al futuro, accontentandosi di procedere per gradi, di fare nel tempo una “costituzione a tappe”.
Da allora sono state approvate oltre dieci leggi fondamentali, senza mai a raccoglierle in un solo testo. Questa singolare esperienza ha indebolito le norme fondamentali. Ciò che noi chiamiamo una costituzione in senso prescrittivo, destinata a fondare e a limitare il governo di un popolo, in Israele finisce per essere una costituzione in senso riflessivo, la cui normatività è precaria, dipendendo dagli equilibri tra i partiti.
Supremazia del parlamento
La Knesset, e i partiti in essa rappresentati, hanno la sovranità politica del Paese. Il compromesso delle origini fu nel senso che – per ragioni legate alla sicurezza nazionale, e alle fratture irrisolte nell’ebraismo, tra la componente religiosa e quella laica – anche le regole fissate nelle leggi fondamentali sarebbero state sempre rivedibili dalla politica parlamentare. Non solo non c’è un procedimento di revisione della costituzione (non essendoci del resto una costituzione), ma le procedure aggravate di modifica di alcune norme fondamentali, anche quando previste, sono superabili facilmente dalla Knesset. La democrazia israeliana assomiglia a quella inglese, dove la supremazia parlamentare resta – anche lì proprio per l’assenza di una costituzione – un dogma indiscutibile, mai minacciato credibilmente dal potere giudiziario (sempre molto deferente, non a caso, verso il governo parlamentare).
La supremazia dei giudici
I problemi di un sistema politico consociativo, acuitisi alla fine degli anni Settanta (per la pressione delle piccole formazioni religiose ebraiche e arabe) spinsero i due partiti maggiori (i Laburisti e il Likud) sulla via delle riforme. Il 1992 fu l’anno di quella che Aharon Barak, ex presidente della Corte suprema, definì la “rivoluzione costituzionale” israeliana. Ne vennero alcune leggi fondamentali, sia sulla forma di governo, sia sul rapporto tra stato e cittadini. Le prime stabilirono l’elezione diretta del premier, per rafforzare il governo, limitando il potere dei piccoli partiti. Fu un fallimento totale, decretandone l’abbandono (1996-2001: si votò nel 1996, 1999, 2001). Nessuna norma, infatti, garantiva al premier eletto una sicura maggioranza alla Knesset, che rimaneva arbitra delle coalizioni di governo e sovrana nei confronti anche del premier scelto dal popolo.
Altre due leggi fondamentali introdussero il Bill of Rights: un catalogo di diritti individuali verso lo stato. La conseguenza notevole – che giustificava quel giudizio di Barak – fu il concretizzarsi di un sistema giudiziario di controllo della costituzionalità delle leggi (la prima sentenza della Corte suprema che lo rese effettivo è del 1996). Nasceva allora una democrazia liberale in senso costituzionale. La Knesset veniva detronizzata e, come in tutte le liberaldemocrazie, sottoposta al controllo di giudici indipendenti, garanti delle libertà individuali (e delle minoranze anche non ebraiche) contro gli arbitri del potere.
Ritorno alle origini
In questo contesto si inserisce la proposta, voluta da Netanyahu, di una legge fondamentale sul giudiziario. Limitare il potere della Corte suprema equivale a ripristinare la pienezza del principio di supremazia parlamentare della Knesset di fronte a giudici non elettivi, privi, dunque, di legittimazione democratica. Niente di nuovo sotto il sole. È l’antico dilemma che ha assillato tutti i teorici del costituzionalismo moderno a partire da John Locke. L’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789 diceva che la costituzione implica tanto la garanzia dei diritti quanto la separazione dei poteri. Il suo limite era non indicare il confine dei poteri. Le nostre costituzioni hanno stabilito il primato dei diritti nei confronti del potere, ma ne hanno affidato la realizzazione al processo democratico e, in seconda battuta, la custodia al potere giudiziario e alla Corte costituzionale. In Israele il conflitto tra politica e giurisdizione è reso più acuto proprio dalla sua storia peculiare. Basti aggiungere che la legge fondamentale del 2018, sullo “stato nazionale del popolo ebraico”, voluta da Netanyahu per “assicurare che Israele” rimanesse “uno stato ebraico per le generazioni future”, ha dilatato la frattura tra religiosi e laici, e acuito la questione sulla protezione delle minoranze.
Costituzionalismo indeciso
A fare la differenza non è solo il fatto che Israele non ha una costituzione sovrana e che, perciò, è l’esperienza giuridica a giustapporre, con eguale legittimità, tanto la supremazia della Knesset quanto la garanzia dei diritti affidata alla Corte suprema. Vi contribuisce l’assenza di un compromesso a priori sui valori fondamentali, codificato nella costituzione scritta, sottratto così al rischio di continue manipolazioni da parte della politica. A questo mira una costituzione: togliere la sostanza della democrazia (non solo le sue procedure o il confine tra i poteri) alle volubili scelte della maggioranza, pure eletta legittimamente dal popolo sovrano. Quello israeliano è un costituzionalismo indeciso. Come dimostra il caso della Repubblica di Weimar (che pure aveva una costituzione scritta ma divisiva), oggi è in gioco il futuro della democrazia ebraica, nel contesto mediorientale, per nulla pacificato.
* pubblicato sul quotidiano ‘Il Domani” del 29 marzo 2023
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