Con il decreto legge n. 185 del 2 dicembre 2022 (convertito dalla legge n. 8 del 27 gennaio 2023) il Governo ha prorogato al 31 dicembre 2023, previo atto di indirizzo delle Camere, la cessione all’Ucraina di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari. Il 13 dicembre 2023 la Camera ha approvato la risoluzione Serracchiani ed altri n. 6-00012, Richetti ed altri n. 6-00014, Foti, Molinari, Cattaneo, Lupi ed altri n. 6-00016, e il Senato, lo stesso giorno, le proposte di risoluzione n. 2, n. 3 e n. 5 impegnando il Governo a mantenere fermo il sostegno all'Ucraina. E il 31 gennaio 2023 il Ministro della difesa ha adotta il decreto di autorizzazione alla cessione di armi alle autorità governative ucraine, il settimo dall’inizio del conflitto.
Ma cosa significa sostenere l’Ucraina inviando armi? Come può essere definita la posizione italiana rispetto al conflitto?
Pare di poter affermare che la cessione di armi disposta a partire dal decreto legge n. 14 del 2022 (articolo 2 bis, comma 1) e confermata con il decreto legge n. 185 del 2022 non possa che avere quale conseguenza diretta la rinuncia alla neutralità al conflitto. La neutralità trova la sua disciplina positiva nelle convenzioni dell’Aja del 1907. In particolare, la convenzione del 18 ottobre 1907 «concernente i diritti e i doveri delle Potenze e delle persone neutrali in caso di guerra per terra» può essere considerata come ricognitiva di principi generalmente riconosciuti nella comunità internazionale, così che il suo contenuto precettivo si deve intendere come vincolante anche per gli Stati che non l’hanno ratificata. Uno sguardo sull’impianto normativo della convenzione mostra come il riconoscimento dei diritti degli Stati e delle persone neutrali abbia uno spazio assai più ridotto di quello attribuito alla imposizione di doveri e obblighi; da ciò discende che se da una lettura sistematica si possono ricavare i due principi fondamentali della inviolabilità del territorio dei neutrali e del divieto per i neutrali di favorire una delle parti in conflitto, chiaro appare che il primo è funzionale al secondo. E il divieto per gli Stati neutrali di favorire le parti in conflitto non ammette alternative, così che la sua violazione non può che essere considerata come un atto ostile nei confronti delle parti sfavorite: lo Stato che favorisce una delle parti in guerra entra formalmente nel rapporto di guerra. Sul piano della legislazione nazionale si deve invece fare ancora riferimento al r.d. n. 1415/1938, recante l’approvazione dei testi della legge di guerra e della legge di neutralità. Quest’ultima riprende all’art. 9 il contenuto degli artt. 7 e 9 della convenzione dell’Aja, e all’art. 8 vieta espressamente la fornitura di armi a qualsiasi parte belligerante.
Alla luce di queste considerazioni non si può che concludere che, scegliendo di inviare armi, l’Italia è entrata in guerra al fianco dell’Ucraina.
La secca alternativa tra Stati belligeranti e Stati neutrali è stata però messa in discussione da parte della dottrina internazionalistica che ha proposto la categoria della non belligeranza come forma di neutralità qualificata. Condotte benevole nei confronti di una delle parti in conflitto sono state considerate come legittime e il rapporto tra inviolabilità del territorio neutrale e divieto di favorire belligeranti è stato reinterpretato nel senso più restrittivo di un obbligo in capo al neutrale di non utilizzare il proprio territorio come base di un attacco diretto. Si verrebbe così a definire la non belligeranza come un terzo status, intermedio tra la neutralità e la belligeranza che verrebbe assunto dagli Stati che, non partecipando direttamente ai combattimenti, decidessero di favorire una delle parti in guerra. Si potrebbe così sostenere che la posizione dell’Italia rispetto al conflitto russo-ucraino sia la non belligeranza, una sorta di neutralità benevola, per usare l’espressione di Cansacchi, cui il nostro paese non è del tutto nuovo.
Si deve però sottolineare come il concetto di non belligeranza sia connotato da una forte ambiguità, già a partire dalla prima occasione in cui è stato oggetto di una esplicita decisione di politica estera. Ci riferiamo alla posizione – spesso richiamata in dottrina – assunta dall’Italia allo scoppio della seconda guerra mondiale, che se da una parte vide la deliberazione del Consiglio dei ministri del 1° settembre 1939 di non avviare alcuna azione militare, dall’altra fu precisata, per superare le letture di parte francese e inglese, dalla deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 7 dicembre 1939 che ribadiva la piena partecipazione alla guerra.
Venendo a vicende più recenti, possiamo notare come la stessa ambiguità abbia caratterizzato la partecipazione italiana al conflitto iracheno del 2003. Il 19 marzo 2003 il Consiglio Supremo di Difesa stabiliva i limiti entro i quali l’Italia avrebbe appoggiato l’intervento anglo-americano: 1) esclusione della partecipazione alle azioni di guerra di militari italiani; 2) esclusione della fornitura e della messa a disposizione di armamenti e mezzi militari di qualsiasi tipo; 3) esclusione dell’uso di strutture militari quali basi di attacco diretto ad obiettivi iracheni; 4) qualificazione della posizione italiana – conformemente alle statuizioni che precedono – come non belligerante; 5) mantenimento dell’uso delle basi per le esigenze di transito, di rifornimento, e di manutenzione dei mezzi, nonché dell’autorizzazione al sorvolo dello spazio aereo nazionale; 6) rafforzamento degli apparati di protezione delle basi medesime.
Si noti come l’esclusione della fornitura di armi sia stata considerata nel 2003 come elemento qualificante della posizione formale di non belligeranza, mentre non lo fu la concessione dello spazio aereo nazionale per il sorvolo di aerei bombardieri.
Dalla pur rapida lettura di queste vicende si ricava la difficoltà a formalizzare la distinzione tra atteggiamenti favorevoli ad una delle parti in guerra e diretta partecipazione ai combattimenti, in ragione della necessità di valutare i conflitti armati nella loro concretezza che può caricare di un valore diverso condotte astrattamente molto simili. E la difficoltà, o meglio l’impossibilità, di giungere ad una formalizzazione impedisce di considerare la non belligeranza come uno status. L’affermazione della non belligeranza non rappresenta pertanto l’apertura ad una terza via tra la belligeranza e la neutralità ma piuttosto una particolare modalità di partecipazione alla guerra (determinata da esigenze di carattere militare, quali la necessità di prendere tempo per la mobilitazione o l’armamento delle truppe, oppure di carattere politico, interno o internazionale) che potrebbe legittimare una reazione, anche militare, delle altre parti in conflitto.
Pertanto non si può negare che l’Italia, pur non partecipando ad operazioni militari con le proprie forze armate, sia in guerra da un anno al fianco dell’Ucraina e si prepari a restarci anche molto a lungo.
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