Per valutare i risultati delle elezioni legislative va anzitutto fatta una premessa. Nelle situazioni non del tutto chiare, con alcuni elementi di incertezza, la valutazione è sempre sic stantibus rebus e andrà poi aggiornata, perché gli attori politici hanno margini di movimento maggiori del solito e chi al momento può sembrare più favorito può andare incontro a problemi maggiori del previsto, e lo stesso a rovescio, chi appare più danneggiato può riuscire a risalire almeno parzialmente la china.
Chiarito quindi che la valutazione è necessariamente provvisoria, dobbiamo allora partire dalle promesse delle due riforme del 2000, operative dal 2002: il quinquennato presidenziale (al posto del precedente settennato) e l’ordine delle elezioni che vede la precedenza delle Presidenziali di poche settimane rispetto alle legislative. C’era una promessa minima, quella per la quale queste due innovazioni combinate tra di loro avrebbero evitato nuove dannose coabitazioni, dannose perché un sistema con rapporto fiduciario e con un Presidente abituato ad esercitare rilevanti poteri era stato un problema, soprattutto dal 1997. Questa promessa minima è stata mantenuta anche stavolta. C’era però anche una promessa massima, che aveva fatto preferire le elezioni con trascinamento di poche settimane anche rispetto all’ipotesi mediana che era stata affacciata dal Club Jean Moulin nel 1962, ossia alla contestualità tra le due elezioni: quella per cui l’effetto di trascinamento avrebbe comportato quasi sicuramente una maggioranza assoluta autosufficiente. Per la prima volta questo non è accaduto, e neanche di poco. L’unico altro caso di mancata maggioranza assoluta dopo le elezioni presidenziali, quella del 1988, aveva numeri ben diversi: allora si trattava di 275 seggi rispetto a una maggioranza di 288 (i seggi erano 575); oggi sono 245 rispetto a 289 (su 577 seggi).
Già per questo appare opportuno parlare di un bilancio in chiaroscuro, che poi diventa più scuro per i nostri cugini francesi, abituati a muoversi con maggiori certezze.
Il chiaroscuro resta tale anche rispetto allo specifico rendimento del sistema elettorale: in presenza di tre schieramenti maggiori sostanzialmente equivalenti al primo turno (i primi due addirittura con risultati pressoché identici al 25%) nessun sistema che non sia con premio majority assuring può ragionevolmente produrre una maggioranza assoluta. Tuttavia, però, non si può dire che il sistema si sia limitato a fotografare passivamente le forze in campo, esso ha comunque operato, secondo la lezione duvergeriana, come trasformatore di energia, costruendo una solida maggioranza relativa. La parità in voti intorno al 25% del primo turno tra macroniani e sinistra si è trasformata in uno scarto in voti di 7 punti nel secondo turno (38% rispetto al 31%) e di 20 in seggi (42% rispetto al 20%). Se invece il sistema avesse fotografato proporzionalmente e passivamente le forze in campo, l’aggregazione di maggioranze sarebbe obiettivamente quasi impossibile. Da questo punto di vista sono del tutto comprensibili le critiche di chi è favorevole a formule majority assuring, ma non quelle di chi simpatizza con formule proporzionaliste che produrrebbero effetti difficilmente gestibili. Il doppio turno di collegio non è una formula majority assuting, ma non per questo è una formula debole e senza effetti: possiamo dire che lo sia, quando come ho segnalato poco fa, una differenza di 7 punti percentuali in voti al secondo turno, lo scarto tra macroniani e Nupes, si è trasformato in una di 20 punti in seggi?
Sorge però a questo punto il dubbio: si può governare per la prima volta con una maggioranza davvero relativa e non quasi assoluta come nel 1988? Potranno certo anche stavolta aiutare alcune norme costituzionali: la mancata obbligatorietà del voto iniziale di fiducia che faciliterà la nascita del probabile Governo Borne 2 rimpastato con la sostituzione dei componenti dell’attuale esecutivo bocciati alle elezioni ed anche, per parte dell’attuazione del programma, l’articolo 49.3 che consente di approvare testi ponendo la fiducia ed evitando quindi il voto parlamentare, a meno che i gruppi di opposizione non reagiscano saldandosi nel voto di una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta. In altri termini il modo francese di porre la questione di fiducia è ben più stringente del nostro perché scatta un meccanismo che, per evitare l’approvazione di un testo, impone agli oppositori di dimostrare che esiste una maggioranza contraria al Governo. Rispetto al 1988, tuttavia, tale meccanismo piuttosto drastico, è stato reso più debole dalla revisione costituzionale del 2008 che, a parte le leggi di bilancio e di finanziamento della sicurezza sociale, consente ormai di utilizzarlo solo una volta per ogni sessione parlamentare. Impossibile ripetere quindi quanto accaduto dal 1988 quando fu usato per ben 39 volte (Rocard 28, Cresson 8, Bérégovoy 3) sulle complessive 87 dei 65 anni della Quinta Repubblica.
Bisognerà quindi stavolta basarsi di più su forme di intesa politica. In astratto ciò non sembra impossibile. Se infatti consideriamo che la linea di frattura che passa nell’attuale sistema dei partiti è quella tra i sostenitori di una maggiore integrazione europea e i loro avversari, il quadro della nuova Assemblea Nazionale vede sul lato pro-Ue non solo la maggioranza relativa macroniana, ma anche i Repubblicani sul centro-destra e la parte più moderata dell’eterogena Nupes (Socialisti e Verdi).
Ci vorrà più fatica del previsto per Emmanuel Macron, ovviamente non solo dentro le istituzioni, ma anche e soprattutto nel rapporto col Paese, ma forse, diradate le prime angosce per la novità della situazione, il compito non apparirà impossibile.