L’avvento del Governo Draghi ha drasticamente cambiato le carte in tavola e tutti i partiti hanno modificato le proprie attitudini, il proprio posizionamento, la propria struttura. Senza una grande consapevolezza di quello che è successo negli ultimi quindici anni, il rischio che ancora incomberebbe sulle nostre teste nei prossimi mesi che ci separano dalla definitiva messa in sicurezza dell’attuazione del PNRR (e dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica) sarebbe quello di una grave crisi di sistema, e non solo la crisi di un partito o più partiti. E, infatti, dalle difficoltà, difficilmente sanabili, scoppiate dentro il Movimento 5Stelle potrebbero (ancora) derivare gravi conseguenze di sistema. Si tratta infatti della crisi di un partito la cui cultura politica ha dominato l’ultimo quindicennio, rompendo lo schema bipolare che aveva dominato il passaggio del millennio, di un non-partito o movimento che ha contestato alcuni capisaldi dell’assetto costituzionale italiano, sconvolgendo i risultati delle elezioni politiche del 2013, bloccando la riforma costituzionale del 2016 e poi risultando vincitore nelle elezioni del 2018, in cui ha conquistato la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento e ha costituito l’asse numericamente centrale dei tre governi che si sono succeduti nella legislatura, tutti e tre costruiti sotto l’attenta regia del Presidente della Repubblica, che ha dovuto utilizzare tutti gli strumenti e le potenzialità che la vigente Costituzione gli mette a disposizione.
Se i processi politici messi in moto dal Governo Draghi andranno avanti – e tutto lascia pensare che così sarà, a prescindere dal soggetto che concretamente assumerà fra qualche mese la carica cruciale di Presidente della Repubblica – assisteremo probabilmente in Italia al più grande “ribaltone” politico, istituzionale e culturale degli ultimi trent’anni, vale a dire a partire da quella fase che – collegata alla caduta del Muro di Berlino e a Tangentopoli – viene individuata come l’inizio della crisi (in realtà, infinita) della I Repubblica. Sembrano infatti giunte al capolinea le due linee di tendenza politico–istituzionali che hanno dominato – confusamente, ma con una certa nettezza di direzione – questi tre decenni.
Sta infatti fallendo il progetto ispirato al democraticismo populista, che pensava di dirigere le moderne società liberali, democratiche, sociali, attraverso un impasto in cui la democrazia diretta, aggirando gli inevitabilmente complessi processi democratici rappresentativi, si legava a figure di capi carismatici in grado di creare meccanismi di identificazione tra masse e leader. Non c’è bisogno di scendere ad esempi, nel presente e nel passato. Nel contempo sta fallendo anche quel disegno per cui si pensava che la direzione delle moderne democrazie sociali potesse avvenire, non già attraverso una normale, ordinata, fisiologica, continua dialettica tra legislatori e giudici, bensì attraverso forme, totalmente autoreferenziali e sottratte ad ogni verifica democratica, di controllo legalitario esterno e astratto. Si trattava, e si tratta ancora, di due progetti pericolosi, giacché intimamente autoritari e antidemocratici, che, tuttavia, nelle ricorrenti fasi di crisi che, non solo in Italia, abbiamo attraversato, erano sembrati la risposta più rapida e più facile, la scorciatoia che i modelli democratici avevano davanti per poter funzionare senza apparenti contraccolpi: ampi settori intellettuali avevano irresponsabilmente ceduto a queste sirene.
Sconfitte, o comunque superate, queste linee di tendenza, non c’è dubbio che occorrerà far ripartire i processi della democrazia rappresentativa, ripristinare i corretti circuiti, facendo finalmente leva all’interno di essi sulla competenza e sul merito, e facendo tesoro delle tante lezioni che si possono trarre anche da questa ultima crisi (basti pensare all’impatto che ha avuto sulle modalità di lavoro, sulla mobilità, sullo sfruttamento degli spazi, sulla distribuzione della ricchezza).
Il tema oggi è: chi è l’interlocutore politico di questi processi, di questi veri e propri sommovimenti tellurici? La sensazione è che non ci sia ancora un interlocutore politico in grado di intercettarli, recepirli e trasformarli in indirizzo politico, mentre vi sia – in nuce – un interlocutore sociale. Nelle democrazie contemporanee, liberali e sociali, non vi è più una contrapposizione tra ristrette elites oligarchiche e masse popolari deboli e emarginate. Per quanto negli ultimi decenni si sia assistito nell’area della classe media a fenomeni importanti di impoverimento e di blocco della mobilità sociale, le nostre società occidentali sono caratterizzate dalla presenza di una amplissima area che si può largamente ricondurre al concetto di classe dirigente: si tratta di milioni di persone (il cui peso specifico vale però tre-quattro volte tanto), dal professionista all’imprenditore, dal funzionario pubblico a quello privato, dai docenti ai tecnici qualificati, dagli operatori della sanità a quelli del turismo a quelli dei servizi, che costituiscono l’ossatura del paese, il luogo e lo strumento della creazione di valore aggiunto, della formazione e della circolazione di quel patrimonio di idee che costituiscono la vera ricchezza di un paese che non vuole rinunciare a crescere. Né sembri esagerato chiamare questa area “classe dirigente”: è proprio con il consenso di questi ampi e ramificati settori sociali che si forma, si dirige, si indirizza un paese. Manca però oggi in Italia l’interlocutore politico di quest’area: l’operazione che riuscì negli anni Sessanta alla democrazia cristiana, che non riuscì ai repubblicani negli anni Settanta e ai socialisti negli anni Ottanta, che tentò negli anni Novanta Forza Italia, che di nuovo non riuscì a Scelta civica nel primo decennio del secolo (che non si seppe porre come partito di massa), che avrebbe potuto riuscire al Pd nello scorso decennio, non sembra oggi alla portata di nessuno dei partiti italiani, per come si sono concretamente strutturati. Tutti appaiono schiacciati in una visione che li vede, da un lato influenzati dalle elites, dall’altro posti all’inseguimento del voto delle masse, ma nessuno ancora in grado di intercettare compiutamente il consenso di quella che abbiamo definito la classe dirigente del paese e trasformarlo in indirizzo politico. In verità, quel partito che, senza abbandonare il suo radicamento sociale, per primo capirà come costruire il consenso in questa area avrà vinto la scommessa politica dei prossimi venti anni.
E, infine, sempre secondo le parole della Costituzione, graduiamo e mettiamo nella giusta scala gerarchica il ruolo della politica e delle istituzioni: “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti” (art. 49); i partiti concorrono “con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49); il Presidente del Consiglio dei Ministri “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile; mantiene l’unità di indirizzo politico” (art. 95); il Presidente della Repubblica “è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (art. 87), e, anche in questa sua funzione, nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri (art. 92), che compongono un Governo che deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94), cioè dei rappresentanti del popolo nella fase più alta del suo esercizio della sovranità in una costituzionale democrazia rappresentativa. Ricordiamoci di queste parole, quando, fra qualche tempo, di fronte alla crisi che attanaglia ormai il maggior partito di questa sventurata legislatura, i nostri rappresentanti – che hanno il dovere di adempiere le funzioni pubbliche loro assegnate con “disciplina e onore” (art. 54, comma 2) – saranno chiamati a compiere una scelta, quella del Capo dello Stato, che sarà cruciale per il futuro dell’Italia e dell’Europa. Se il circuito della legittimazione politica, basato sul raccordo tra partiti e istituzioni (nel collegamento tra l’art. 49 e gli artt. 92, 94 e 95), non riuscirà, come finora non è riuscito, a svolgere i suoi compiti, bisognerà accettare che prevalga il circuito – comunque anch’esso costituzionalmente previsto – della legittimazione di derivazione istituzionale (nel raccordo tra gli artt. 87, 92, 94 e 95), con le conseguenze di sistema che ne potranno derivare, anche nel senso di una accentuazione dei correttivi presidenziali della forma di governo parlamentare italiana. Il tempo per un soprassalto di resipiscenza del sistema partitico è ormai assai breve: occorrerebbe un progetto consapevole di risistemazione istituzionale, ma dopo il referendum di riduzione dei parlamentari si assiste solo a balbettii politico-costituzionali, quali quelli della omogeneizzazione dell’elettorato attivo delle due Camere che dovrebbe assicurare – ma con quale grado di certezza? – anche l’omogeneità delle maggioranze politiche nelle due Camere (la mancanza di un progetto è testimoniata dalla incapacità di portare a compimento l’omogeneizzazione dell’elettorato passivo, rimasto fermo a 25 anni per la Camera e 40 per il Senato!).
Di fronte ai due circuiti costituzionali, occorrerà allora scegliere se rafforzare la garanzia di continuità di indirizzo politico-costituzionale nel tempo più lungo (la rappresentanza dell’unità nazionale per sette anni) ovvero la garanzia di efficienza nella direzione nella politica generale del Governo per un tempo più breve, fino alle prossime elezioni politiche, comunque evitando nel frattempo sussulti e sommovimenti che mettano a repentaglio hic et nunc la tenuta delle istituzioni.
(scritto inedito)