In Italia, così come nella maggior parte dei sistemi politici democratici e sociali, eredi delle vecchie società liberali, il processo democratico si è basato per lungo tempo sul modello della prevalenza nel processo decisionale del ruolo dei partiti popolari e di massa: questo modello ha avuto delle varianti anche molto importanti e significative, ma è stato il tratto comune che ha caratterizzato la fine dell’800 e tutto il ‘900 europeo e occidentale. Il modello si è poi evoluto nel tempo, modificando i tratti originari, ovvero è crollato, più o meno rovinosamente, più o meno repentinamente, in quasi tutte le esperienze democratiche e sociali, non solo per ragioni endogene, ma anche perché attaccato dall’esterno dall’emergere, non più dei modelli socialisti, che nell’arco del ‘900 hanno toccato l’apogeo per poi dissolversi, quanto di modelli autoritari e autocratici, che stanno minacciando le nostre democrazie.
Nei sistemi democratici e sociali occidentali si sono mescolati negli ultimi quarant’anni due linee di tendenza nella strutturazione dei processi decisionali: l’una faceva riferimento ad una matrice democratico-populista, che ha trovato i suoi epigoni nei cantori italiani della democrazia diretta e dell’”uno vale uno”; l’altra faceva capo all’idea della prevalenza dei controlli legalitari esterni, che avrebbero potuto conformare (e purificare) i processi decisionali lungo le linee di un controllo astratto, che avrebbe messo a tacere gli impulsi belluini della lotta politica. Come al solito, l’Italia è stato il laboratorio in vitro in cui questi modelli sono emersi nella loro crudezza e nella loro capacità rappresentativa estrema: ci siamo entrati prima, ma forse riusciremo anche a uscirne prima.
Nella crisi conclamata dei modelli estremi della democrazia diretta e del controllo legalitario astratto, come ristrutturare il circuito dei processi decisionali, come dargli una nervatura, un assetto, una direzione? Come dare a chi decide una chiave di lettura attraverso la quale traguardare sistemi complessi e ordinare al loro interno i valori e le priorità? Come evitare che nel disordine delle società di massa le forme della democrazia rappresentativa vengano travolte da meccanismi di decisioni casuali, assunte sulla base di pressioni momentanee o di letture affrettate di sondaggi, non più mediate, né dai partiti di massa, né dal democraticismo populista, né dall’illusione purificatrice del controllo legalitario astratto ed esterno?
Forse, nel disordine che altrimenti ci apprestiamo a vivere, è giunto il momento di rivendicare la centralità, nel circuito della democrazia rappresentativa e all’interno del primato della politica, della forza delle idee e del loro confronto organizzato e aperto, con le armi della capacità di dialogo che solo una cultura dialettica sa offrire. Non si tratta di spostare l’asse delle forme plurali della democrazia rappresentativa, né di rivendicare il prevalere di una società degli ottimati, bensì di affermare il modello della decisione consapevole, assunta dal decisore democraticamente legittimato sulla base del confronto aperto delle idee liberamente sviluppato in sistemi aperti, pluralisti, abituati allo scambio dialettico delle esperienze e dei dati, secondo un modello intimamente interdisciplinare. E ciò è tanto più vero in un momento in cui è richiesto al Paese e all’Europa un grande sforzo di rinnovamento per uscire dalla drammatica crisi economica, sociale, culturale, produttiva provocata dalla pandemia. Forse è finalmente giunto il momento di riaffermare la centralità dei luoghi di ricerca e, tra di essi, delle Università. In fin dei conti, proprio le Università, specie se riescono a rinnovarsi e uscire da una certa patina di autoreferenzialità, sono il luogo della più grande industria del Paese (basta pensare ai numeri – studenti, docenti, personale amministrativo, indotto - che si muovono intorno ad esse); sono il luogo in cui si può trovare ogni tipo di expertise; sono il principale luogo in cui si può intercettare, strutturare e dirigere la formazione della futura classe dirigente nazionale ed europea; sono un luogo fondamentale, anche se non unico, per garantire mobilità sociale (elemento drammaticamente mancato negli ultimi venti anni); sono il luogo, se non unico, sicuramente privilegiato in cui si può produrre e far circolare (garantendo la massima libertà di espressione, fondamento laico della costituzionalmente garantita libertà di ricerca e di insegnamento) quel patrimonio di idee che è l’unica garanzia della crescita del Paese e dell’Europa di fronte alle chimere di modelli, estranei alle nostre tradizioni e ai nostri valori, basati sulla competizione estrema ovvero sul carattere autocratico e autoritario del processo decisionale.